
Quando ammiriamo un dipinto, la cosa che più ci colpisce, se abbiamo davanti un ritratto, è probabilmente l'espressione del volto che vi compare, la capacità del quadro di comunicarci, attraverso una velatura dello sguardo, una ruga che solca la fronte, l'increspatura di un sopracciglio, uno stato d'animo, un modo di essere, un vissuto interiore che si riflette nel volto che ci troviamo davanti.
La seconda cosa che notiamo, di solito, è l'estrema verosimiglianza di ciò che appare nel quadro. Ed in questo i fiamminghi erano degli autentici maestri.

La minuzia dei particolari, l'estrema accuratezza di ogni dettaglio (in opere, ad esempio, come I coniugi Arnolfini del 1434 di Jan van Eyck) ha impressionato per secoli generazioni di increduli fedeli e prelati (si pensi alla sorpresa nel vedere la parete della navata sinistra della chiesa di Santa Maria Novella letteralmente bucata dalle architetture prospettiche della Trinità di Masaccio [fig. 1] o allo sgomento suscitato dalla visione della Cappella Sisitina, affrescata a più riprese da Michelangelo), o di frequentatori di dimore private, in cui fossero custodite preziose collezioni, e di musei.
Ma come si è arrivati ai livelli di perfezione dei dipinti del Rinascimento maturo (pensiamo alla Vergine delle rocce di Leonardo conservata alla National Gallery di Londra o alla splendida Galatea affrescata da Raffaello su una parete di Villa Farnesina a Roma) o a quelli del Classicismo seicentesco o del realismo caravaggesco?
Il processo è stato lungo e, come per tutti i fenomeni di vasta portata, ha conosciuto momenti di rinnovamento di stili pittorici e tendenze artistiche e fasi di regressione, balzi in avanti e ripiegamenti sui propri passi. Uno degli elementi di maggior rilievo in questo tormentato cammino è stato però il superamento della bidimensionalità del quadro, caratteristico dell'arte bizantina e delle forme ellenizzanti della pittura dell'età carolingia e ottoniana (per intenderci, quella compresa tra ottavo e undicesimo secolo), e la conseguente conquista della spazialità: la tanto agognata tridimensionalità del dipinto che, con l'applicazione in pittura della prospettiva brunelleschiana, ha raggiunto una forma compiuta; ma che già un buon centinaio di anni prima, con Giotto, ha visto il suo primo e determinante sviluppo (la Trinità di Masaccio cui si accennava sopra è stata realizzata tra il 1426 ed il 1428, Giotto è morto settantenne nel 1337).
Intendiamoci, come abbiamo detto sopra la conquista della spazialità non è scaturita dall'idea di un singolo artista che dall'oggi al domani ha inserito delle architetture nei dipinti che dessero il senso della tridimensionalità o ha disposto i personaggi delle sue opere in modo che si ottenesse un'idea di profondità. A Roma, già dagli anni Settanta del Duecento, si assiste ad un recupero della tradizione paleocristiana del IV e V secolo d.C., i cui plastici e spaziali cicli musivi e pittorici hanno molto verosimilmente influenzato il giovane Giotto (si ipotizza infatti un suo viaggio nella città dei Papi successivo all'apprendistato con Cimabue, da datarsi quest'ultimo tra il 1280 e il 1285). Altrettanto può dirsi per le sculture di Arnolfo di Cambio e per quelle di Nicola Pisano il quale ultimo, a Pisa, fin dagli anni Sessanta del Duecento «aveva iniziato quella trasformazione del linguaggio artistico “di greco in latino” con nuove dimensioni di spazio e forme plastiche dinamiche, ammorbidite dal chiaroscuro» [1].
Ma Giotto è andato oltre. Siamo qui di fronte al primo coerente e sistematico superamento degli schemi ieratici e innaturali dell'arte bizantina ed alla introduzione in pittura di un naturalismo che Giancarlo Vigorelli definisce già “quattrocentesco” per il nuovo senso dello spazio, del volume e del colore. Se la pittura bizantina si caratterizza per l'appiattimento e la stilizzazione delle figure, ritratte in pose frontali che tendono a trasmettere un senso di astrazione soprannaturale delle immagini ritratte, Giotto, per usare le parole del Vasari nella sua seconda edizione delle Vite, “divenne così buon imitatore della natura che sbandì affatto quella goffa maniera greca, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, introducendo il ritrarre bene di naturale le persone vive”.
Il primo cantiere in cui operò Giotto fu quello di Assisi, ove il pittore di Vespignano poté confrontarsi con una pittura di tipo illusionistico, in cui false architetture dipinte si sovrappongono a quelle vere, come per dare un senso di maggiore spazialità. L'opera di cui si parla, attribuita ad un non ben definito Pittore oltremontano, è una decorazione di una parete di fondo del transetto della Basilica superiore di San Francesco.

L'idea viene ripresa nell'Esaù respinto da Isacco [fig. 2] realizzato da un “Maestro di Isacco” che si tende ad identificare col giovane Giotto: “tutto è qui straordinariamente nuovo, dalla plasticità dei corpi sbalzati tramite il gioco delle ombre e delle luci, all'andamento fluente dei panneggi accordati col movimento delle membra che avvolgono” [2]. Ma la cosa che più colpisce è l'inquadramento della scena all'interno di architetture ben definite che comunicano un senso di tridimensionalità. Il baldacchino sul quale Isacco è disteso è incorniciato dalle pareti di una camera che, sebbene non perfettamente scorciate, conferiscono un'idea di profondità all'affresco. E i personaggi ritratti sono collocati all'interno di uno spazio ben definito, non appiattiti come avveniva nella pittura bizantina. Hanno movenze naturali, non pose ieratiche; hanno espressioni realistiche, non solenni e manierate (sebbene qualche residuo bizantinismo permanga nell'affresco).
La strada è oramai segnata e Giotto la segue con coerenza e determinazione anche nel successivo ciclo di affreschi attribuito al maestro toscano, realizzato tra il 1290 ed il 1295 sempre nella Basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Stiamo parlando delle Storie di San Francesco, articolate in ventotto riquadri divisi da colonnette dipinte e posizionati lungo la parete di destra, sulla controfacciata dell'ingresso e sulla parete di sinistra della navata della Basilica. Ancora Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari: “Niente più ori, o fissità iconiche, o simboli astrusi. Con Giotto la vita quotidiana, esclusa da secoli dalle arti figurative, rientra in una chiesa e prende stabile possesso delle pareti più in vista” [3].

E non solo la vita quotidiana torna ad essere oggetto di espressione artistica, ma la coerenza con cui si definiscono gli spazi della scena è ora massima, come si può desumere dal Presepe di Greccio [fig. 3] in cui, oltre al realismo delle figure ritratte ed alla differente posa ed espressione di ciascuno dei protagonisti, è la spazialità ad emergere prepotentemente con una meticolosa descrizione del presbiterio raffigurato (dal ciborio arnolfiano, al leggio centrale, al pulpito laterale preso da dietro) ed una calcolata distribuzione dei personaggi all'interno degli spazi ritratti.
La grandezza di Giotto è però testimoniata soprattutto dal suo più celebre ciclo di affreschi, quello dell'Oratorio degli Scrovegni a Padova, realizzato in un paio d'anni, tra 1303 ed il 1305. Qui Giotto, più che sul realismo descrittivo, si concentra sull'effetto espressivo. La spazialità è oramai un dato acquisito, sia quando il pittore adotta architetture che conferiscono effetti di profondità, sia negli affreschi in cui lo scenario è costituito da paesaggi naturali. Un equilibrio classico pervade le scene ritratte ed un rinnovato senso di umanità le connota di un profondo significato emozionale.

Così è, tra i tanti affreschi presenti, per il suggestivo Compianto su Cristo morto [fig. 4], ove vanno rilevati la diversità delle pose di ciascun personaggio, l'enfasi dell'espressione tragica su ognuno dei volti ritratti (celebre il San Giovanni con le braccia spalancate che fissa il corpo senza vita di Cristo), gli angeli inconsolabili che compaiono in alto disorientati in un volo disordinato: “la scena ha ormai abbandonato ogni rigidità bizantina per calarsi nel mondo umano, dei sentimenti e delle emozioni, imponendosi come un modello per tutta la pittura del Trecento” [4].
Sul solco tracciato da Giotto si inseriranno poi, attraverso vari passaggi di cui non è possibile dar conto in questa sede, gli autori rinascimentali che, come detto, grazie anche agli studi di Brunelleschi sulla prospettiva ed alla sua applicazione in pittura ad opera di Masaccio, consentiranno di raggiungere le vette di perfezione che oggi conosciamo e che ci paiono quasi scontate. È grazie all'opera di grandi iniziatori, i quali a loro volta hanno seguito le tracce di altri artisti che prima di loro avevano affrontato problemi tecnici di ardua risoluzione e avevano provato a dare delle risposte, che si è arrivati agli splendidi dipinti citati all'inizio di questo breve saggio. E Giotto è sicuramente uno di questi!
Gianfranco Raffaeli
[1] “Giotto. I classici dell'arte”, edizione speciale per il Corriere della Sera, a cura di Maurizia Tazartes, Rizzoli/Skira, Milano, 2004
[2] “Arte nel tempo. Vol. 1. II Tomo. Il gotico e l'arte italiana tra Duecento e Trecento”, Pierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, Bompiani, Milano, 2004
[3] “Arte nel tempo. Vol. 1. II Tomo. Il gotico e l'arte italiana tra Duecento e Trecento”, Pierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, Bompiani, Milano, 2004
[4] “Giotto. I classici dell'arte”, edizione speciale per il Corriere della Sera, a cura di Maurizia Tazartes, Rizzoli/Skira, Milano, 2004
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