
L’11 agosto 1892 nacque Giuseppe Di Vittorio, il dirigente sindacale italiano più amato. Perché? Non solo per il contenuto delle sue tante battaglie a favore dei lavoratori, per il socialismo e contro il fascismo, ma anche e soprattutto per la sua autenticità e per l’intelligenza politica, che mostrò dopo gli anni della complessa formazione (vissuti nella natia Puglia) fino alla scomparsa avvenuta il 3 novembre 1957, poche ore dopo l’ennesimo discorso pronunciato a Lecco di fronte a militanti e dirigenti della CGIL.

Alla morte del padre, nel 1899, Giuseppe Di Vittorio dovette abbandonare la scuola per aiutare sua madre, il cui lavoro di lavandaia non era sufficiente per far sopravvivere la famiglia e mantenerlo agli studi. Frequentava allora la seconda elementare, a proposito di questa scelta forzata dirà poi: “il distacco dalla scuola fu una grande amarezza. Amavo molto la lettura e ogni pagina di libro era come una rivelazione per me. Avevo sete di quelle rivelazioni”. La sete di sapere, la curiosità e la costante attenzione per gli altri furono la benzina per un motore quasi inesauribile, al servizio dei deboli e degli esclusi di cui egli stesso, bracciante come il padre, aveva fatto parte fin dall’infanzia affrontando privazioni di ogni genere. L’avvento del fascismo e della violenza di Stato lo costrinse a un lungo esilio politico vissuto tra la Francia (dove diresse La voce degli italiani, quotidiano dell’Unione Popolare Italiana), il Belgio, l’URSS e la Spagna, dove combatté col fronte repubblicano durante la guerra civile. Dunque Di Vittorio, che nel 1919 sposò Carolina Morra (madre di Baldina e Vindice), morta a Parigi nel 1935, e nel 1946 Anita Contini, non può essere considerato soltanto un sindacalista capace e generoso. Vittorio Foa, che lavorò al suo fianco nel secondo dopoguerra con Bruno Trentin, Fernando Santi e tanti altri esponenti dell’area social-comunista, nell’autobiografia Il Cavallo e la Torre lo avrebbe definito “il mio solo maestro in politica”, a conferma del fatto che il sapere non si acquisisce solo sui libri e che lo spessore umano è un elemento determinante attraverso il quale riconoscere un leader e accettarne l’autorevolezza.
La capacità di ascoltare era una delle sue doti principali, senza questa caratteristica è difficile dialogare, capire e, quindi, elaborare qualsiasi progetto credibile. Di Vittorio, fin dagli anni ’20, non fu immune da settarismi ideologici figli, da una parte, del sindacalismo rivoluzionario che lo attrasse negli anni giovanili e, dall’altra, soprattutto dello stalinismo che influenzò pesantemente la politica del PCI. Ma egli seppe far prevalere il senso critico e l’amore per la libertà in momenti decisivi, per esempio nel 1956. Nel novembre di quel fatidico anno, di fronte all’invasione sovietica dell’Ungheria, Di Vittorio approvò subito il comunicato molto critico della CGIL preparato dai dirigenti socialisti, salvo poi “ritrattare” (ma solo formalmente, come si comprese subito) il sostegno agli oppositori del regime per mantenersi fedele alla linea incarnata da Palmiro Togliatti che, procurandogli un grande dolore, lo descrisse come l’ideatore di un’inesistente operazione politica finalizzata a sostituirlo al vertice del PCI. I compagni socialisti, a cominciare da Giacomo Brodolini e Piero Boni (ma anche comunisti come Antonio Giolitti, che sarebbe entrato nel PSI nel 1957), sapevano bene che Peppino non aveva cambiato idea sulla scellerata scelta dell’URSS ma che, per rimanere a pieno titolo all’interno della sua parte politico-sindacale senza perdere il contatto con le masse, in sostanza aveva dovuto “accontentare” il segretario del suo partito accettando un drammatico compromesso, la parte meno gradevole (ma spesso necessaria) della politica. Fu, quello, l’alto prezzo da pagare alla coscienza che stare dalla parte degli sfruttati e dei deboli poteva anche significare discutere alla base le ragioni del cosiddetto socialismo reale e i sinistri meccanismi del potere, compresi quelli interni al PCI, senza tuttavia rinunciare a rimanere parte di quella grande e controversa famiglia politica, nonostante la propaganda di partito sostenesse l’esistenza di una sorta di paradiso in terra che aveva azzerato le ingiustizie del capitalismo coniugando le libertà politiche con lo sviluppo economico e sociale. Di Vittorio aveva ben presente la forza del mito e, anche nell’agosto 1939, di fronte alla firma del Patto Ribbentrop-Molotov (che aveva generato enorme scalpore tra i comunisti e in tutto l’antifascismo nell’immediata vigilia della Seconda guerra mondiale), aveva mostrato forti perplessità sull’intesa tra URSS e Germania mettendo in discussione la linea del Komintern, che si erano tradotte nella provvisoria emarginazione dagli organi dirigenti del partito. Dopo due anni di confino politico figli della persecuzione fascista (1941-43), Di Vittorio sarebbe rientrato a pieno titolo nell’agone politico-sindacale, trattando con i socialisti (in primis con Bruno Buozzi) e con i cattolici per la ricostituzione su base unitaria della CGIL, avvenuta con la firma del Patto di Roma il 9 giugno 1944.
Dopo la fine della guerra e la sconfitta del nazifascismo, l’elezione all’Assemblea Costituente e al Parlamento; le difficoltà dovute all’irrompere della Guerra fredda nel sindacato con le scissioni da cui nacquero CISL e UIL; il Piano del Lavoro del 1949, che non fu preso in considerazione dai governi centristi di Alcide De Gasperi ma che rappresentò il primo tentativo organico nell’Italia repubblicana, già collocata nel blocco occidentale, di coniugare la lotta di classe con l’aumento della produzione; l’autocritica del 1955, dopo la sconfitta nelle elezioni per le commissioni interne alla FIAT, che segnò l’inizio di una profonda revisione nella strategia della CGIL che aprì alla contrattazione articolata e all’autonomia del sindacato, non più mera “cinghia di trasmissione” delle decisioni dei partiti operai ai lavoratori. Di Vittorio, tra gli anni ’40 e ’50, continuò a spendersi anche nella Federazione Sindacale Mondiale tentando, negli anni cupi dell’ultimo stalinismo, di rimanere al fianco non soltanto degli operai, ma anche dei disoccupati e delle masse contadine da cui proveniva e che mai dimenticò.
Il suo ricordo ci riporta a un mondo finito per sempre? Non proprio. Il ’900 è finito e, con esso, sono tramontate le categorie politico-culturali che l’hanno interpretato e “indirizzato”, figlie di una struttura produttiva in gran parte diversa da oggi. Tuttavia lo sfruttamento globale ha assunto forme estreme, per molti aspetti sovrapponibili a quelle conosciute da Di Vittorio e alle quali egli si oppose con intransigenza durante tutta la vita. Nel suo ultimo discorso, a Lecco, affermò: “Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere”. Oggi sono pochi gli esponenti politico-sindacali della sinistra, guardando al contesto nazionale e a quello internazionale, a potersi esprimere davvero in questi termini. Forse è il caso, per affrontare utilmente il futuro, di ricordare che il passato ne è la radice e che molti “vecchi” nodi socio-economici e politico-culturali, nel nuovo millennio, sono irrisolti. La mossa del cavallo evocata da Foa (quasi opposta a quella della torre che alludeva allo “scontro frontale”, tanto lineare quanto prevedibile) indicava la necessità, figlia proprio degli insegnamenti avuti da Di Vittorio, di affrontare i problemi in modo diverso, di saper mutare l’ottica con una coscienza nuova. Non si doveva cioè rinunciare a incidere sulla realtà con l’obiettivo di trasformarla alla radice ma, per essere realmente efficaci, secondo Di Vittorio si doveva innanzitutto mettere in discussione se stessi e i propri metodi di lotta, non limitandosi all’ovvia (e alquanto sterile) constatazione che gli avversari sono dalla parte sbagliata.
Andrea Ricciardi
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