
Il temuto scontro frontale fra la Magistratura e la ministra della Giustizia Cartabia è avvenuto così come era stato preannunciato senza mezzi termini, proprio a ridosso dell'approvazione del contestato testo di riforma della giustizia da parte della Camera.
“Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati” è stata la sintetica quanto decisa risposta data dall'intero corpo della Magistratura, al termine dell'assemblea nazionale dell'ANM tenuta il 30 aprile scorso.
Con 1081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti i magistrati, indipendentemente dalla corrente di appartenenza, hanno ribadito la loro contrarietà – potremmo dire pressoché totale – al varo della legge di riforma tanto a cuore alla Ministra e ovviamente al Governo.
Non è stato un fulmine a ciel sereno, va osservato, perché fin dalla stesura da parte della Commissione Giustizia delle prime bozze di lavoro – modellate sul testo normativo della precedente riforma del ministro Bonafede – i mugugni iniziali hanno lasciato il posto ad un irrigidimento sempre crescente della categoria che intravedeva nell'impostazione generale e nei singoli provvedimenti, non solo un attacco alla loro indipendenza quanto anche un proditorio e subdolo aggiramento di tutte quelle garanzie fissate nella Carta costituzionale.
Una presa di posizione così netta e decisa dei magistrati la si può rintracciare solo andando indietro nel tempo, all'ultimo governo Berlusconi, quando passavano sotto i loro occhi reati ormai non più punibili come “evasione fiscale”, “falso in bilancio”, depenalizzati con leggi emanate con i ritmi di un ciclostilato.
Era stata, quella, una protesta coraggiosa, il tentativo di costituirsi baluardo invalicabile della legalità e l'opinione pubblica l'aveva anche sostenuta perché capiva che quei magistrati stavano facendo il loro lavoro senza condizionamenti di sorta. Ma da quell'epoca troppe cose sono accadute, si è modificato radicalmente il quadro politico e anche quello giudiziario e molte volte – forse troppe – hanno avuto proprio la magistratura come protagonista parallela e per nulla equidistante dai fatti che si trovava a sanzionare o a giudicare.
Ma la lenta perdita di credibilità ha determinato anche una inaspettata crisi interna, sfociata nel c.d. “caso Palamara”, che ha portato alla luce problemi forse per troppo tempo sottovalutati come l'arroganza e l'arbitrio delle “correnti”, veri e propri centri di potere legati a doppia mandata con quella Politica mentalmente avvezza al sotterfugio e agli espedienti.
Troppi gli scandali, comunque maturati in una cornice di arretratezza e di inefficienza dell'intero sistema giudiziario.
Oggi a questo muro contro muro i due schieramenti si presentano, potremmo dire, alquanto deboli e malandati entrambi. La compagine politica si è contraddistinta fin dall'inizio dei lavori di riforma per una accentuata grossolanità negli interventi, e se appunto i Partiti si davano battaglia in Aula con ammiccamenti o sgambetti preordinati, a seconda dei casi, il Governo da parte sua tentava di sprintare al massimo con risoluzioni di chirurgia estetica miranti a dimostrare alla Commissione europea la forza e la capacità della compagine governativa nel cadenzare gli interventi, condizione necessaria per ricevere i primi cospicui stanziamenti di euro.
Nella bagarre parlamentare, che ha visto più di una volta la ministra Cartabia in difficoltà, si è inserita anche, ad esempio, la presa di posizione favorevole dell'ex procuratore Armando Spataro che alla rivista L'Espresso ha dichiarato: ”Il decreto Cartabia non è una legge bavaglio, ma un argine alla giustizia spettacolo (riferito al decreto sulla “presunzione di innocenza”, n.d.a.) … e la riforma non è uno sfregio alla Costituzione ma uno strumento per una sobrietà comunicativa rispettosa di principi irrinunciabili” [1].
Nel clima già teso del dibattito parlamentare, come se non bastasse, ha fatto scalpore la presenza in Aula tra le fila di Italia Viva del deputato Cosimo Ferri, ex magistrato appartenente alla corrente di Magistratura indipendente – quella cioè più inquinata dal rapporto politica-magistratura – già sottosegretario alla Giustizia in ben tre governi (Letta, Renzi e Gentiloni) e attualmente sotto processo disciplinare al CSM con l'accusa di aver pilotato assieme a Luca Palamara e Luca Lotti nel 2019 l'elezione del Procuratore Generale di Roma.
La nota più che stridente risiede nel fatto che chiunque avrebbe notato il macroscopico conflitto d'interessi che ricadeva e ricade sulla figura di Ferri, sottoposto ad indagine conoscitiva da quel CSM che ora proprio lui dai banchi del partito di Renzi decide come debba essere riformato.
La Politica ancora una volta indifferente a tutto, non ha sollevato obiezioni.
Il tanto temuto sciopero, o forse sarebbe più corretto parlare di astensione dall'esercizio della funzione giurisdizionale, fissato per il prossimo 16 maggio, – presumibile avvenga cioè a ridosso della lettura del testo al Senato – genera preoccupazione più per il suo significato simbolico che per i reali danni materiali che può portare all'attività giudiziaria.
Quello che proprio i magistrati tutti non intendono accettare della riforma, riguarda almeno un paio di punti ritenuti lesivi dell'indipendenza del giudice nonché configurabili come potenziali strumenti di erosione delle norme costituzionali.
Il primo riguarda il famigerato “Fascicolo per la valutazione”, dove tra l'altro verrà annotato il numero delle richieste di rinvio a giudizio e gli esiti finali. Insomma, una specie di pagella sull'impegno e capacità del magistrato. “La logica di fondo, è che il processo sia una ‘gara' da vincere, che ogni riforma di sentenza, o il rigetto dell'istanza cautelare del pm, valga come una sconfitta, un punto in meno per il magistrato sconfessato” è quanto affermato dal Segretario Generale dell'ANM Salvatore Casciaro [2].
Il secondo punto sul quale i magistrati non ammettono alcuna forma di mediazione, è la limitazione ad un solo “passaggio di funzioni” tra giudice e pm da esercitarsi entro i primi 10 anni di carriera, inaugurando di fatto la separazione delle carriere. Vecchio cavallo di battaglia del centro-destra, gli è stato sempre impedito – e giustamente aggiungo – di entrare trionfalmente dalla porta principale della ricorrente legislazione in tema di giustizia e ora in forma surrettizia sembra raggiungere il suo obiettivo.
È fin troppo evidente che un corpo separato di pubblici ministeri addetto all'esercizio dell'azione penale con in più la non trascurabile direzione della Polizia Giudiziaria, staccato dal contesto giurisdizionale, possa diventare un'aberrazione – e non importa se ciò avviene in altri Paesi europei forse provvisti di Costituzioni diverse dalla nostra – perché necessariamente perderà la propria indipendenza dal potere esecutivo, costringendo di fatto il pm a “militare” nelle scelte delle maggioranze parlamentari del momento.
Sarebbe lo sconquasso irreparabile dell'intero sistema costituzionale basato sulla equidistanza e divisione dei poteri. E questo non vogliamo e non possiamo permetterlo.
Anche perché, al di là degli scontri interni ai partiti, proprio in ambito europeo si stanno rivalutando da tempo le azioni che sollecitano i diversi sistemi a rafforzare l'indipendenza del pubblico ministero e la sua effettiva autonomia come cardine sul quale far ruotare l'indipendenza di tutto il potere giudiziario [3].
“Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati”, ripetono risoluti gli appartenenti all' ANM sperando che la Politica non si volti dall'altra parte perché non siamo difronte alle sguaiate proteste di una associazione dopolavoristica incline a racimolare favori o altri benefici, bensì ad un bivio di importanza cruciale per la stabilità dell'intero sistema Paese.
Ed ecco perché tutto si deciderà, in un senso o nell'altro, quando l'intero pacchetto della riforma passerà alla lettura del Senato dove si spera possa aprirsi un dibattito vero, una riflessione profonda, che scongiurasse le conseguenze di una approvazione sbrigativa perché, temo, non ci saranno più opportunità per porre rimedi.
Di sicuro sui lavori al Senato peserà l'incognita dei 5 referendum sulla Giustizia approvati dalla Corte Costituzionale sui quali i cittadini saranno chiamati al voto il 12 giugno prossimo, in concomitanza al primo turno delle elezioni amministrative.
Anche in questo caso le domande che saranno poste ai cittadini riguardano temi già ampiamente discussi e formalizzati nella proposta di legge Cartabia e oggetto del braccio di ferro con i magistrati (ad esempio la separazione delle carriere e le norme sulla costituzione e funzionamento del CSM), il che mi fa venire il sospetto che possa esistere una forma neanche tanto velata di accerchiamento architettata ad hoc per ridimensionare comunque le funzioni della magistratura. Se così fosse, a chi gioverebbe?
Stefano Ferrarese
[1] Armando Spataro “Il decreto Cartabia non è una legge bavaglio, ma un argine alla giustizia spettacolo” – 10/1/2022
[2] Giustizia, magistrati in sciopero contro la riforma Cartabia” – 30/4/2022
[3] “Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei”, parere N.9 del 2014 – artt. I e II – 17/12/2014
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