
Sull’ultra decennale problema di una riforma organica e strutturale della Giustizia ho pensato, e scritto, che forse quella presentata dalla ministra Marta Cartabia si andava configurando, nel corso del suo iter parlamentare, più come un pesante schiaccia sassi capace di appiattire ogni asperità che un esercizio di armonizzazione delle varie posizioni espresse dai partiti e dai magistrati stessi.
Semplificare, con l’accetta, le questioni complesse – meccanismo messo in pratica quotidianamente dalla classe politica – ha trovato nella Guardasigilli la massima e più proficua interprete. A nulla sono valse le obiezioni dei magistrati per bocca del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) Giuseppe Santalucia, né tanto meno le accorate raccomandazioni espresse dal giudice Nino Di Matteo per evitare che si procedesse ad una fin troppo evidente burocratizzazione della Giustizia.
Ho sperato che proprio nella lettura del testo al Senato, ci potesse essere una riflessione profonda sul contenuto che si chiedeva di approvare. Purtroppo un vento di bonaccia ha spirato in quell’Aula, al netto della sceneggiata della Lega con l’avvocata Giulia Bongiorno che, pur votando sì, ha tenuto a fissare i suoi paletti di cartapesta con un ultimo blitz sulle “misure cautelari”, il cui testo era stato già ampiamente bocciato in sede referendaria.
Quindi l’Italia può vantare al suo attivo una nuova legge che riforma l’ordinamento giudiziario e il CSM, fortemente voluta con 173 sì – PD, M5S, FI, Leu, Autonomie – 37 no, quelli di FdI, Cal e Italexit e 16 astenuti.
L’unico leader di partito a parlare è stato Matteo Renzi (Italia Viva) che è stato capace di pontificare definendo la riforma semplicemente “inutile”. Ma anche altri suoi colleghi, che avevano votato per il sì, si abbandonavano a commenti di profondo dispiacere per quello che si sarebbe potuto fare per migliorare il pacchetto delle condizioni e che invece non è stato fatto.
E perché non è stato fatto? Che senso può avere affogare nei rimpianti, quando l’occasione c’era e veniva offerta sul piatto d’argento della discussione in Senato?
“Sulla riforma si poteva fare di più e si poteva fare meglio” ha dichiarato, quasi nello sconforto, Alessandra Maiorino di M5S; “Avevamo l’ossessione che la riforma potesse essere affossata e che tutto rimanesse come prima” ha sintetizzato l’esponente del PD, Anna Rossomando.
Allora, cosa non ha funzionato? Perché in sole ventiquattrore ore, se vogliamo, è stata liquidata la lettura del testo in Senato senza l’eco di una sola voce critica? Certo, la fretta per chiudere il pacchetto di riforme ha giocato sicuramente un ruolo importante perché a luglio scade il mandato del CSM ora in carica con nuove elezioni previste a settembre, e non va dimenticato, che su tutti aleggiava lo spauracchio del voto di “fiducia” paventato dal presidente Draghi, in caso di riserve sul testo, manifestate magari all’ultimo minuto.
Quindi tutti allineati e coperti per non disturbare il manovratore, salvando la faccia e la decenza con la ripetizione del solito mantra che il “Parlamento è sovrano” – e ci mancherebbe pure – e che ogni intervento dell’esecutivo sarebbe stato rinviato al mittente.
Da sottolineare che uno degli aspetti importanti di questo lungo iter legislativo, culminato con la trasformazione in legge del disegno di riforma presentato dalla Cartabia, è che nessun partito della maggioranza ha rivendicato fino in fondo il suo contributo prevalente a quel pacchetto di norme. Sembra quasi che, pur avendo detto tutti sì, nessun voglia riconoscere il figlio “bastardo” e la dimostrazione ce l’ha offerta la Lega attraverso i roboanti interventi del suo leader, utili soltanto a generare confusione e far dimenticare la sconfitta nei referendum.
Ma se questa originale maggioranza a geometria variabile, come viene definita prendendo in prestito il termine dalla meccanica dei turbo compressori, ha dimostrato di saper digerire di tutto e di più pur di arrivare alle elezioni del 2023. Il Presidente dell’ANM Santalucia proprio non riesce a darsi ragione del perché si sia voluto andare a sbattere contro un muro: ”non si sono tratte le conseguenze del voto referendario. Se il corpo elettorale boccia la separazione delle carriere, non capisco perché si insista” [1].
Commenti altrettanto taglienti sono quelli rilasciati a Il Fatto Quotidiano dal Procuratore Capo di Catanzaro Nicola Gratteri il quale in maniera schematica riassume l’iter di riforma legislativa partendo dai risultati dei referendum: ”Il mancato quorum è una plateale bocciatura di una cosiddetta riforma della magistratura e della giustizia che non era gradita a quasi nessuno e scontentava tutti. La ministra Cartabia e il governo dovrebbero prendere atto che ben più dell’80% dei cittadini, quelli che non hanno votato e quelli che hanno votato No, non vogliono la separazione delle carriere: invece vogliono che i magistrati possano continuare a lavorare senza interferenze e senza meccanismi che intacchino la loro autonomia e terzietà” [2].
Va detto, comunque, che questa riforma riguardante l’intero ordinamento giudiziario fa risaltare alcune novità apprezzabili, come ad esempio la stretta normativa sulle c.d. “porte girevoli” fra politica e magistratura. La finalità è quella di eliminare dannose sovrapposizioni tra mandato politico e funzioni giudiziarie. Il primo divieto è quello di poterli esercitare nello stesso tempo e poi, obbligatoriamente, porsi in aspettativa per l’intero periodo di svolgimento del mandato. In ogni caso, già all’atto dell’accettazione della candidatura sarà obbligatorio collocarsi in aspettativa senza riconoscimento degli emolumenti.
Altro paletto posto a completamento di questa norma, riguarda il caso di mancata elezione per una carica politica che permetterà di ricoprire nuovamente funzioni giurisdizionali con l’esclusione però della circoscrizione e del distretto nel quale si esercitava l’incarico prima della candidatura.
Se l’introduzione di questa norma ha trovato sostanzialmente tutti d’accordo, così non si può dire per quella che attiene alla separazione delle funzioni che ha scavato un vero fossato, forse difficilmente colmabile, fra potere esecutivo e autorità giudiziaria. Nella sostanza, è previsto un limite ai passaggi di funzione tra magistratura giudicante e magistratura requirente.
La norma taglia l’attuale possibilità di esercizio di questa funzione, prevista non più di quattro volte nell’intera carriera, portandola drasticamente ad una sola volta con l’obbligo di avvalersi di questa facoltà entro i primi 10 anni di carriera.
Come è stato evidenziato dall’ANM, un taglio così drastico rappresenta soltanto l’ultimo passo alla definitiva separazione di “fatto” delle carriere, allontanando in pratica il Pubblico Ministero da quella cultura, quasi sacrale, della giurisdizione, fondamento del nostro ordinamento giuridico.
Anche in questo caso, come si fa non ricordare che proprio i partiti che si erano battuti strenuamente contro ogni possibile manovra tendente alla separazione delle carriere, cioè PD e M5S, ora si siano uniformati alla corrente mainstream andando a braccetto con disinvoltura estrema con il centro destra? Sarà da imputare a quelle famose geometrie variabili oppure a un ancoraggio senza compromessi al gruppone governativo, il che renderebbe comunque possibile una giustificazione in caso di insuccesso della riforma targata Cartabia?
È evidente che di considerazioni se ne possono fare altrettante, ma una cosa è certa e cioè che con la riforma del processo civile, di quello penale e ora con la nuova legge sull’ordinamento giudiziario, la ministra della Giustizia è riuscita nel compito assegnatole; edificare i tre pilastri necessari per ottenere i fondi europei da investire nel PNRR che ammontano a 2,34 miliardi di euro.
A parte le asperità normative già evidenziate presenti nel testo, ritengo impossibile fare oggi un bilancio complessivo sull’intera riforma perché ora bisognerà attendere i decreti attuativi, dato che si tratta di una legge-delega al governo per la realizzazione dei contenti, che renderanno tutti i provvedimenti operativi.
Quello che possiamo augurarci è che proprio nel momento della pratica applicazione delle norme, qualcuno si ricordi di ascoltare nuovamente i magistrati facendoli entrare magari dalla porta di servizio, dato che sembrerebbe precluso ogni loro accesso dal portone principale.
Stefano Ferrarese
[1] Andrea Fabozzi “Nuovo CSM, la legge c’è ma forse non basta”, 17 giugno 2022
[2] Giustizia, Gratteri “Mancato quorum è bocciatura della riforma”, 16 giugno 2022
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