Goliarda Sapienza, L’arte della gioia

romanzo scrivere

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E così, questo amico che tanto di me custodisce e tanto di sé mi ha consegnato in mezzo secolo di amicizia, mi racconta con una certa luce negli occhi: “tu sai che tiro le notti a vedere serie su Netflix. Eh, l'altra notte l'ho passata a leggere un libro, L'arte della gioia, di Goliardia Sapienza”.
Cinquecento pagine in una notte.

Eravamo in libreria (per una ragione o un'altra noi due si finisce in libreria a inseguire, ognuno per suo conto, la propria trama di sussurri che sventolano dagli scaffali fitti, sulle coste delle copertine e tra le pagine, proprio come nella vita e della vita abbiamo, ognuno per suo conto, seguito il richiamo dei nostri appetiti e delle nostre chimere, talvolta raccontandoci, altre condividendo). E lì mi si presenta col libro. Me lo dona, chiedendomi di scrivere una recensione. Recensione che lui, scrittore e giornalista, si è rifiutato di scrivere!
Che so io di recensioni? Niente. Più che una recensione posso redigere una confessione, il resoconto di un lettore che incontra un libro.

Goliarda Sapienza L'arte della gioiaInizio la lettura della prima di quattro “parti” attraverso le quali si snoda il romanzo. Nelle prime pagine fatico a seguire il ritmo, poi mi accordo, o il ritmo si spiana, non so dire. Leggo, entro nella trama e penso che non v'è niente di più coerente: alla visione di serie televisive l'amico ha sostituito, per una notte, la lettura di questo libro. L'autrice l'ha terminato nel Settantasei: tempismo perfetto per anticipare le telenovelas e gli sceneggiati televisivi che avrebbero inondato le vite vuote delle casalinghe prima e nostre poi, negli anni immediatamente successivi. Una sorta di Uccelli di Rovo a generi invertiti.
Leggo a strappi. Continuamente interrompo la lettura nauseato. Vorrei abbandonare il libro nella pila da scambiare a peso sulle bancarelle dell'usato. Ma ho preso un impegno, scriverne la recensione, e per farlo devo leggerlo, tutto, fino in fondo. D'altro canto per me leggere è un vizio, tanto o poco dipende dai libri che incontro, ed è da mesi che non ho per le mani un libro convincente. Tanto vale… Ma è una purga: se qualche pagina scorre, poi arrivano interminabili pagine durante le quali mi arresto di continuo, brontolando ad alta voce. E mi torna in mente la battuta, citata nella premessa, di un critico che al telefono avrebbe detto: cos'ho a che fare io con questa roba?

Erotismo melenso, che la mia sensibilità maschile si vergogna a cavalcare, nostalgica dell'ironia brutale di un Bukowski.

Modesta, la protagonista, nasce il primo gennaio del “secolo breve” e la trama, perdendosi in complessi e asimmetrici intrecci privati (che mi evocano Cent'anni di solitudine), si adagia su un vassoio di fatti storici che emergono capricciosamente, talvolta innestati nel puzzle degli eventi privati come dissonanti mattonelle raccattate in soffitta.
Comincio la seconda parte. La sapiente goliardia dell'autrice emerge nella indubbia capacità di scrivere. Di scrivere, da intellettuale, il soggetto per una telenovela, coerentemente intessuto quasi esclusivamente di dialoghi. Un esercizio letterario difficile, il dialogo, dialoghi che in questo libro raramente si sfilacciano, restano per lo più convincenti. Piacevoli quelli in dialetto catanese.
Entro nella terza di quattro parti. Tutto immutato. Ne ho letti di libri pretestuosi, magari di grande successo, “classici”, come vengono definiti, sperando che la narrazione prendesse vita vera, catturandomi e facendomi dimenticare l'azione del leggere. Non mi è mai successo, sinora, che ciò accadesse. Le pagine lette sin qui si trasformano in dividendi, le cinquecento pagine complessive del romanzo sono il divisore: ne ho lette i tre quarti.

Due settimane dopo aver cominciato la lettura approdo alla Parte quarta, l'ultima, per terminare il libro e conquistare il diritto a scriverne la recensione, come l'ha definita l'amico nella sua curiosa, vincolante richiesta. In questa quarta parte la scrittura, appassionata e poetica, non si esibisce più ammiccante come si mostrasse in vetrina ad Amsterdam, ma è piena di senso e al contempo languida e mi dona il gusto di viaggiarci dentro senza più percepire l'atto del leggere. La storia del novecento – il nazifascismo, la resistenza e poi il dopoguerra- si intreccia senza soluzione di continuità nel privato, fino a fare precipitare quest'ultimo dentro i fatti scabrosi di quelli anni. Sin dalla prima pagina (389) emerge la maturità e la illuminante saggezza di Modesta, la protagonista. Modesta sono io. Ma con una volontà e una capacità di vivere la vita che io, lettore, non ho e presumibilmente non avrò mai. L'amore, la natura, le relazioni, attraverso una caparbia ricerca metà istintiva metà conquistata a dispetto dei pregiudizi, dell'idiozia, dell'ingenuità, della ferocia, dell'autocensura, dell'esercizio del ricatto, delle illusioni e degli ideali mortiferi dei più, si offrono alla protagonista per quelli che sono: nutrimento. Perfino la morte: “a me fa paura…”

Certo, ma anche curiosità intensa di sapere. Tu sei uomo, Marco, e non sai nel tuo corpo, o sapevi e poi nella fretta di agire hai dimenticato, le metamorfosi della materia e tremi un po' a questa parola. Ma se ti stringi a me, io, donna, ti aiuterò a ricordare e a non temere quel che deve mutare per continuare ad essere vivo.

E come sempre accade quando beviamo una lettura come fosse un buon vino, arriva il momento della vertigine, improvvisamente appare l'ultima pagina.

I libri sono come le persone e le città: passano inosservate o c'è ne innamoriamo, ci fanno antipatia o simpatia, non dipende da loro, ma dal momento nel quale le incontriamo. Ergo, non può darsi un giudizio oggettivo. Ho incontrato L'arte della gioia in un dato momento e posso dire che è valsa la pena faticare per quasi quattrocento pagine per trovare il tesoro che mi aspettava nelle ultime cento.

FF


L'arte della gioia
Einaudi. 2014
pagine 540
€ 14,00

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