Guerra sul campo e paura delle domande

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Non sono un geopolitico e non sono in grado di connettere tra loro i vari elementi che consentano di ricostruire un quadro d’insieme di una guerra.
Quello che so è che l’invasione russa dell’Ucraina, come le decine di guerre spesso dimenticate, non ha giustificazioni e produce morte, dolori e distruzioni che andrebbero fermate, ora.

Non so se l’Ucraina sia l’ultimo baluardo della democrazia e Putin un feroce e nuovo Gengis Khan che minaccia la libertà. Non so neanche se la vera ragione della guerra di Troia fu il rapimento di Elena o se questa versione è da sempre il frutto di un’antica propaganda. Non so se quella antica guerra nascondeva motivazioni economiche e geopolitiche. Alla stessa stregua non so se i trecento morirono alle Termopili per difendere sacri valori di cui le democrazie occidentali sono debitrici. Anche quella guerra scoppiò per motivazioni geopolitiche? Esplose per difende le rotte attraverso cui arrivava il grano in Grecia? Se avessero vinto i nemici la Grecia sarebbe stata asservita e affamata.

Sono molte le cose che non so. Però nella mia ignoranza osservo alcuni fatti. Perlomeno a me sembrano fatti e non interpretazioni.
Donatella Di Cesare è stata celebrata come una novella maestra del pensiero quando difendeva le ragioni e le necessità di uno stato di emergenza, e lottava contro le ragioni di Cacciari e Agamben che tuonavano contro il totalitarismo sanitario. La filosofa Donatella Di Cesare metteva però in guardia dal criminalizzare chi la pensava in modo diverso. Cercava di capire le ragioni.

Andare alla ricerca delle ragioni è il compito che dovrebbe darsi ogni filosofo, ogni intellettuale, ogni individuo. Nel momento in cui queste stesse ragioni, questo tentativo di comprensione, si è focalizzato sui terribili avvenimenti dell’Ucraina, scostandosi dalle spiegazioni accreditate dai principali canali massmediatici si è aperto il balletto delle appartenenze, dei clan, delle recriminazioni, degli ostracismi.
Donatella Di Cesare è passata da novella maestra di pensiero a esempio di cattivo uso delle capacità intellettive.

Non so se le spiegazioni addotte da Donatella Di Cesare abbiano fondamento. Così come non so se abbiano fondamento le opinioni portate dallo storico Luciano Canfora, o quelle addotte da Alessandro Orsini, direttore dell’Osservatorio di Sicurezza Internazionale dell’Università Luiss di Roma. Quello che so è che stiamo parlando di studiosi accreditati.
Canfora è riconosciuto a livello accademico per il rigore dei suoi studi, Orsini è stato invitato in audizione in Parlamento in tempi non sospetti per ascoltare le sue considerazioni sulla Russia. Stiamo parlando di intellettuali con alle spalle anni e anni di studi e approfondimenti. Non stiamo chiamando in causa I troppo furbi e i cretini di ogni età citati da Lucio Dalla nella canzone L’anno che verrà.
Mi sorprende è il modo in cui oggi questi studiosi vengono sbertucciati nel momento in cui tentano un abbozzo di analisi, di riflessione che si scosta da quella maggioritaria. Mi addolora che vengono aggrediti con parole piene di violenza, che smettano di essere considerati come interlocutori, come portatori di idee non necessariamente condivisibili, ma di cui non si può disconoscere l’onestà intellettuale.

Il confronto, se non ammette la presenza di più idee è ancora confronto? Attenzione non sto parlando delle tifoserie “armate” che troppo spesso presenziano agli show televisivi con i loro comizietti urlati.

In una recente conversazione con una cara amica mi sono trovato di fronte l’obiezione che il problema si riduce fondamentalmente alla questione Se dare o non dare le armi all’Ucraina.
Sono convinto che in questo modo il problema sia mal posto, che ridurre tutto a questa esclusiva domanda sia il frutto di una manipolazione già avvenuta. Perché quell’unica domanda annulla il dibattito, obbliga a evitare altri tipi di domande.

Perché abbiamo così paura delle domande? Perché abbiamo così paura di interrogarci?
Alle domande abbiamo sostituito diagnosi psichiatriche più o meno accreditate. Nelle ultime settimane psicoanalisti e psichiatri mainstream, studiosi improvvisati, si sono cimentati nelle loro analisi. Buone per acquietare le nostre coscienze ma tutto sommato incapaci di fornire reali strumenti di comprensione. Chi più chi meno si è esercitato nel riscoprire le diverse malattie del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, dimenticando che le diagnosi da bar dello sport valgono poco e sono fuorvianti. Non importa se a farle è l’uomo della strada o nobili esperti che spesso, purtroppo, non fanno altro che condire le loro scempiaggini con grandi paroloni.

Un docente dell’università mi aveva messo in guardia “Attenzione. Le diagnosi fatte al mercato hanno lo stesso valore delle verdure che si acquistano al banchetto. Sono da tenersi in poco conto”. Ma allora cosa c’è tenere in conto in questo periodo di grande crisi? Il pensiero.
C’è da tenere conto del pensiero che non è semplice gioco stilistico ma è propedeutico all’azione. Non un’azione che ha ancora il sapore delle vecchie retoriche che credevamo superate, in cui si distingue solo tra l’amico e il nemico, aggrappandosi a una concezione tribale delle relazioni, in cui ancora una volta si riduce tutto al gioco tra il bene il male. Quando ormai sapevamo o potevamo presumere che il vero gioco non è mai tra bene e male. Il vero gioco è tra interessi economici e geopolitici.
Il pensiero ha ancora la sua valenza. È un esercizio che non bisogna smettere di esercitare.
Continuo a ribadire la mia ignoranza. Non so chi abbia ragione. Ma un’ammissione di ignoranza è anch’essa propedeutica alla ricerca di una conoscenza che non dia nulla per scontato. Senza creare criminalizzazioni o fratellanze che poco hanno a che vedere con la realtà.
Gianfranco Falcone

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