
La retorica intellettuale, magari al soldo di qualche editore, affermerà con tutta probabilità e senza troppi indugi che, con la scomparsa di Eduardo Galeano, se ne è andato un monumento della letteratura mondiale. Una volta annesso alla notizia anche il concetto critico dello speciale carattere poliedrico del grande autore uruguaiano, il commento non si articolerebbe troppo più a lungo, indirizzando il lettore ad una corsa (peraltro raccomandatissima) alla prima libreria vicina.
In realtà, l'uomo (letterato, giornalista, saggista, storico) che ha lasciato da poche ore questo Mondo, è stato uno dei pochi autori che può fregiarsi senza indugio dell'attribuzione di “Continente”. Le sue tante, sterminate, straordinarie eredità, umana, morale, politica, occupano da decenni l'estensione e la superficie di tutto l'universo americano: dal nord Artico fino alla punta più estrema della Patagonia. La sua opera resta stratificata, indelebile nella vastità immensa di quelle terre e vi entra, scavando a fondo, fin dentro le viscere. Ha raccontato, e continuerà a farlo in eterno, il sentimento più intimo e allo stesso tempo naturale e vitale dei milioni di donne e di uomini nella loro condizione di esseri umani oppressi. Lo ha fatto con sapiente lucidità e con un acume e una consapevolezza che a volte scivolano nella direzione di quella che può apparire come ferocia del vero e del lemma dell'accusa civile, narrando infinite storie, tutte diverse, ma al tempo stesso tutte convergenti in un insieme fatto di dignità. È stato il grido urlato e mai spezzato, mai domo, della rivalsa: l'esigenza quasi fisica di consumare la fiamma della ricerca di un riscatto sociale e storico, un'antropologia dello sfruttamento che esige l'emancipazione, in nome e per volontà delle tante libertà soffocate.
“Le vene aperte dell'America Latina” diviene così un grande romanzo storico. Vi si trovano riferimenti a realtà dolorose, disseminate lungo l'arco temporale di una storia terrificante ma allo stesso tempo indispensabile e necessaria maestra. Pubblicato per la prima volta nel 1971, questa summa di astrazioni e ragguagli “scomodi”, è una vera e propria storia d'amore. Una dichiarazione elegiaca fatta di tenerezza e di calore verso la terra che è madre di un ineluttabile destino. Verso il genitore umiliato e offeso da un sistema scientifico di sterminio: fisico e di coscienze. Era l'inizio degli anni '70 e questa disumana, indegna e immonda distruzione non era ancora completata; la spada del criminale conquistatore si sarebbe dovuta ancora lordare del sangue di altri milioni di innocenti, abbattuti sotto gli artigli dei condor addestrati dal dominio imperialista. L'ingiustizia e la povertà come motivo predominante e accettato sono il paradigma della denuncia e della rivolta; la speranza al tempo stesso non è il finale, bensì proprio quell'utopia che deve essere il mezzo per avere la forza necessaria a camminare verso un orizzonte di indipendenza e affrancamento dalle tirannie e dal predominio.
Per questo Galeano è stato allontanato, negato, proibito nei paesi delle dittature militari, guadagnandosi al contempo un scanno d'onore tra tutte le consapevolezze libere e libertarie del Mondo. Ma il grande autore è stato, se possibile, anche di più. Ha raccontato le immagini dei miti e degli archetipi umani dell'America e non solo che, ne “Le memorie del fuoco”, prendono la forma di quei personaggi fondamentali nel percorso dell'evoluzione culturale e antropica dell'umanità intera. E che poi si sarebbero trasformati negli eroi agonistici di un barrio povero in “Splendori e miserie del gioco del calcio“.
Oggi perdiamo il “Continente” Galeano. Sapere che a staccarlo dall'affetto del Mondo non è stato il terremoto dispotico, al quale invece ha saputo resistere per sempre, ci conforta e ci consola. E rende meno salate quelle lacrime, che sono le “vene” sul volto di tutta la sterminata umanità che lo sta piangendo.
Cristiano Roccheggiani
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