Il CRIC e il futuro delle riviste di cultura italiane

CRIC riviste

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Primum vivere”, è questa una delle necessità del Coordinamento delle Riviste di (CRIC) così come ha ricordato il Presidente Valdo Spini nelle sue conclusioni; far riconoscere alle Istituzioni, ad iniziare dal Parlamento, la necessità di un impegno a salvaguardia della voce di chi non ha altre armi che le proprie idee. Idee tante quelle espresse durante l'appuntamento del Cric – svoltosi a Roma il 23 novembre – incentrato sul tema “Le riviste di cultura italiane nella storia d'Italia (1945-2022)”.

Il CRIC è il Coordinamento che raccoglie un centinaio tra le più prestigiose riviste culturali italiane, la gran parte di quelle che, nel corso di decenni, hanno rappresentato un punto privilegiato di agglutinamento e di sviluppo del dibattito delle idee, in ogni campo del pensiero e della creatività, contribuendo a far dialogare la migliore cultura italiana con quella internazionale.
CRIC Le riviste di cultura italiane nella Storia d'ItaliaLe riviste aderenti, molte delle quali sono frutto di iniziative che, sul piano del puro e semplice business, si configurano come atti di puro eroismo imprenditoriale, si caratterizzano perché operano nel mercato al di fuori di ogni dipendenza accademica, per il taglio interdisciplinare dei contenuti e per la dimensione nazionale, europea e internazionale del loro apporto alla promozione della cultura.

Il CRIC – fondato nel 2003 – si propone di valorizzarne il ruolo e di realizzare iniziative che favoriscano la loro diffusione non soltanto nell'ambito – qualificato, ma necessariamente ristretto – degli studiosi e degli specialisti, ma cercando di promuoverne la lettura in una più vasta platea di lettori, combattendo le storture di un mercato della distribuzione editoriale italiano che premia soltanto i grandi numeri, i best seller o la grande stampa periodica di carattere commerciale.

In molti Paesi europei, del resto, ad iniziare dalla Francia che ad esse dedica anche un prestigioso appuntamento annuale, il ruolo delle riviste di cultura è riconosciuto e valorizzato, tanto che queste pubblicazioni sono difese e sostenute, anche finanziariamente, dai Governi e dalle Istituzioni statali.
In molti Paesi, infatti, alle riviste culturali, in genere trimestrali, quando non a cadenza ancora più rarefatta, si riconosce loro, anche in un'epoca in cui le forme di comunicazione sono oggetto di una quotidiana trasformazione – dall'esplosione dei blog, al varo di miriadi di newsletters di ogni genere, e, soprattutto, alla pandemica diffusione dei social – il ruolo di strumenti capaci di contribuire ad una più cosciente ed informata maturazione dell'opinione pubblica ed ad un elevamento del dibattito culturale, mettendolo al riparo dalla pressione del contingente e dunque capaci, proprio per le caratteristiche intrinseche ai lunghi periodi di elaborazione di ogni articolo che in esse appare, di favorire quelli che vengono definiti “pensieri lunghi”.

Nel suo intervento Spini ha, non per caso, sottolineato come proprio nella situazione attuale occorrerebbe si riuscisse a ricreare le condizioni per un nuovo dialogo tra politica e cultura in modo che la seconda possa ravvivare nella prima l'esigenza ed il dovere di far chiarezza sui principi e sui valori delle impostazioni di fondo che ciascuna forza politica dovrebbero caratterizzare.
Quelli poi, che, depurati dal chiacchiericcio e dalla polemica quotidiana, dovrebbero ispirare e, soprattutto rendere comprensibili agli elettori, mai come ora lontani e disaffezionati, anche le scelte che ciascun Partito, ciascun Movimento, ciascun Polo si propone di sostenere nell'immediato, riconnettendole a quei principi ed a quei valori.
Per anni le riviste, ciascuna delle quali espressione di gruppi intellettuali, in genere di volontariato culturale – quelli che, con una bella espressione erano chiamati i maîtres à penser – hanno animato in modo significativo il dibattito e il confronto delle idee nella società civile.
Siamo oggi, lo hanno sottolineato diversi degli intervenuti – Giacomo Bottos (Pandora), Cosimo Ceccuti (La Nuova Antologia), Antonio Fanelli (Lares), Sandra Federici (Africa e Mediterraneo), Simona Maggiorelli (Left), Guido Melis (Le Carte e la Storia), Maria Panetta (Diacritica), Gabriella Piroli (Prometeo), Davide Romano (Coscienza e Libertà), Andrea Puccetti (Quaderni del Circolo Rosselli), ma anche Cesare Pinelli (Mondoperaio) e Franceso Riccobono (Parolechiave, già Problemi del Socialismo) – in una fase in cui, sulla scena politica del Paese, hanno di volta in volta prevalso da un lato il pragmatismo e la mobilitazione di corto respiro, dall'altro una tecnocrazia che alla prova dei fatti non si è rivelata politicamente forte.
Di fronte ad un ceto politico che sembra aver smarrito il senso profondo della propria missione, non si può purtroppo non constatare una timidezza, quando non una vera e propria diserzione degli intellettuali, quasi che essi abbiano scelto, tranne pochissime eccezioni, di ritirarsi in una sorta di autoesilio dalla scena pubblica e dal confronto delle idee.
Peraltro, è pur vero che a chi abbia scelto di non abdicare al proprio ruolo e di mantenere almeno la voglia di pensare e far pensare in grande non sono arrivati, in questi anni, solenni encomi ma piuttosto invettive, minacce e sostanziali ostracismi.

Altro punto di sostanziale consenso è il riconoscimento della crisi in cui sembrano dibattersi sempre più le nostre Università, oscillanti tra una sorta di “licealizzazione”di massa, il confinamento ad un ruolo di ammortizzatore, neppure troppo occulto della disoccupazione giovanile e l'esplodere di corsi di laurea, di microdipartimenti, e di cattedre che finiscono per partorire curricula grazie ai quali la cultura viene vivisezionata in una miriade di specialismi con il risultato che, al netto del crescente abbandono scolastico, le nostre facoltà contribuiscono ormai sempre più spesso a formare laureati capacissimi, magari, di parlare per ore sulle mutazioni genetiche della mosca delle olive, o sulle varianti di questa o di quella funzione microeconomica, ma, altrettanto spesso, del tutto incapaci di utilizzare i più banali strumenti di analisi, necessari ad articolare un giudizio di insieme sulla situazione politica, economica e sociale della società in cui sono chiamati ad operare e di cui dovrebbero costituire la classe dirigente.
A tal fine certo non aiutano le modalità con cu il MIUR stabilisce i criteri per il riconoscimento dei meriti scientifici degli articoli pubblicati, premiando in modo assolutamente eccessivo alcuni contributi scientifici e quasi non riconoscendo valore a quelli che trattano di questioni storiche, filosofiche, politiche o sociali, tanto più se pubblicati da Riviste che pretendano di mantenere una linea editoriale aperta ed interdisciplinare, rifiutando di rinchiudersi nel ghetto dei diversi “ismi”.
Tradimento dei chierici e burocratica gestione dei sostegni al dibattito culturale si accompagnano, infine, alle distorsioni di un mercato editoriale dominato da un gruppo sempre più ristretto di grandi concentrazioni editoriali per le quali – salvo che quando occorra farlo per una sorta di greenwashing societario – mantenere in vita o diffondere una rivista di elaborazione culturale rappresenta semplicemente un business sbagliato ed un appesantimento inaccettabile del bilancio.

Nel dibattito non sono mancati, ad illustrare la situazione con vividezza di immagini, i riferimenti a situazioni paradossali; dalla impossibilità di essere presenti in edicola o in libreria senza tutte le costose e complesse autorizzazioni amministrative, al rifiuto sostanziale dei distributori di farsi carico delle consegne quando si tratti di poche copie che tuttavia pretenderebbero una diffusione nazionale, fino alla follia di un disegno di legge sul sostegno alla lettura – che pure non ce l'ha fatta ad essere approvato a causa dello scioglimento delle Camere – in cui non era previsto alcun sostegno – economico o organizzativo – per favorire la crescita della lettura delle Riviste Culturali.
Nonostante ciò, le riviste di cultura possono avere un nuovo ruolo, tornare ad avere quella importanza che hanno avuto nel passato.
Tutto questo, infatti, richiede un cambiamento di rotta e cioè riprendere effettivamente un dibattito culturale, un rinnovamento e una ridefinizione dello scopo dell'agire politico che possa nuovamente legare politica e società civile.
Per questo una associazione come il Coordinamento delle Riviste di Cultura che le sostiene in termini di rete e conoscenza della loro attività, nel pluralismo e nella dialettica, costituisce un punto di riferimento importante ed un pezzo significativo di questa azione.
È solo così, infatti, che, a giudizio degli intervenuti al confronto capitolino, si potrà tornare a mostrare ai cittadini un ruolo della politica non come uno strumento per la conquista di posizioni di potere personale o di gruppo, ma l'operare avvertito e consapevole per il bene della res pubblica.
Con il vantaggio che le stesse differenziazioni tra le diverse formazioni politiche possono riacquistare un senso e un respiro, senza scadere in pura battaglia di slogan ed affermazioni demagogiche, tutte e soltanto tese alla conquista di un effimero consenso elettorale.
Il prossimo appuntamento per continuare a rilanciare l'immagine e la voce delle Riviste Culturali italiane alla kermesse “PIU' LIBRI PIU' LIBERI” che si terrà a Roma, del 7 al 10 dicembre.
Mauro Sarrecchia

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