
Il dibattito del 20 agosto non sancisce solo la fine di un’impossibile alleanza di governo. Il bilancio di quella che è stata chiamata Seconda Repubblica sembra essere una lunga teoria di fallimenti più o meno vasti e di promesse quasi mai mantenute.
In questi tempi di fretta assoluta che somiglia spesso all’ansia e alla paura, sarebbe utile, almeno di tanto in tanto, rallentare e farsi da parte senza la smania di poter tenere tutto sotto controllo o di poter spiegare e interpretare tutto.
Un atteggiamento di questo tipo, capace anche di modulare una sorta di prospettiva storica, andrebbe applicato – senza esagerare, ovviamente – anche alla politica e alle piazze virtuali in cui essa spesso si confina o è confinata.
In questi giorni al centro di tutti i dibattiti troviamo la crisi di governo e le dimissioni di Giuseppe Conte.
In molti hanno guardato o ascoltato il dibattito parlamentare del 20 agosto 2019: una data presentata come decisiva e che probabilmente è stata anche un plastico riassunto della situazione italiana e dei limiti di proposta dei partiti politici.
Allontanandoci per un attimo dalla cronaca più stretta, che s’interroga sui passi che verranno per volontà del Presidente della Repubblica (la sua saggezza sembra – nelle parole di molti – una specie di ultima spiaggia), volgiamo uno sguardo in parte ardito su quello che è andato in scena.
Forzando la mano, il dibattito parlamentare ha costretto anche a pensare al fallimento di tutti i progetti che negli ultimi vent’anni si sono presentati con la velleità di riformare e cambiare il paese.
Con la presunzione che bastasse parlare di Seconda Repubblica (o giungere fino alla Terza) si è creduto di entrare in una fase politica che producesse mutamenti importanti nel paese.
In realtà l’uno dopo l’altro, con cadenze e movenze diverse, tutti i progetti sono falliti, almeno in parte.
Per motivi diversi, con responsabilità differenti, le parti politiche che hanno amministrato il potere hanno finito con varare provvedimenti anche non marginali, ma che non hanno saputo apportare novità decisive nella società italiana.
L’ampiezza della crisi – non solo economica – richiedeva interventi ben più strutturali e ha messo i partiti o i loro “padroni” in rapporto con problemi storici di difficile risoluzione.
Nei confronti dell’opinione pubblica e all’inseguimento di un sempre più becero e immediato consenso, i partiti sono passati per fasi di estrema contrapposizione che ci hanno illuso che nella sfida accesa si celasse la soluzione dei problemi.
In realtà, questa visione della politica, nella sua cronica difficoltà a generare soluzioni condivise, ha finito con il portare a successi immediati, seguiti poi da parabole discendenti: populisti e uomini soli al comando sembrano fallire per le stesse dinamiche che avevano creduto di poter sfruttare a proprio vantaggio.
Diciamocela tutta con un poco di forza: tutti quelli che si sono posti come nuovi non hanno innovato; tutti quelli che si sono presentati come i prossimi eroi del paese si sono lasciati stringere nelle difficoltà del potere e nella soave estasi del successo.
Se avete fatto caso, buona parte degli interventi del 20 agosto è stata proposta da leader o portavoce di forze politiche che avevano promesso di cambiare il paese e che negli ultimi vent’anni l’hanno comunque governato senza i necessari esiti.
Insomma il 20 agosto è stato il dibattito dei fallimenti politici (totali o parziali).
Una parte almeno dello schema base degli interventi è stata comune: tutti hanno richiamato – da sinistra, da destra e da ogni lato – le riforme che la loro parte politica avrebbe operato; tutti hanno criticato le riforme fatte dagli altri e hanno provato a farci credere di non aver gestito il potere ieri o l’altro ieri.
Il progetto di Silvio Berlusconi è fallito perché il “teatrino della politica” è più forte che mai e, pur avendo egli governato a lungo, non ha saputo innescare nessun vero mutamento né nel ceto politico né nelle politiche economiche del paese.
Le ricordate le sue continue promesse? Le sue annunciate svolte nazionali? Niente o quasi niente si è visto. Anzi ci sarebbe tanto da scrivere sul degrado culturale e politico che si lega al suo nome.
La Lega, prima quella di Umberto Bossi e poi ancor più quella di Matteo Salvini, ha fallito nelle sue promesse di cambiare totalmente l’andamento della politica italiana.
Con i vestiti della secessione o con quelli del federalismo, con gli abiti, con le canottiere o in costume, la Lega è andata sempre più inseguendo la pancia del paese.
La sua politica ha condotto a un imbuto in cui la ricerca di nemici allontana ogni proposta politica e avvilisce il paese in una prospettiva senza futuro.
Più che una visione prospettica e aperta al futuro, nel linguaggio di Matteo Salvini si annida una smania retrospettiva, “presentista” e guidata dall’allucinazione di poter bloccare le trasformazioni storiche.
Il M5Stelle ha fallito prima ancora di iniziare la partita: per la generalizzata incompetenza che lo distingue; per l’ambiguità di un movimento che, mentre dice di non voler essere un partito, diventa, a lungo, una sorta di azienda eterodiretta.
Il governo di Giuseppe Conte è nato da un’alleanza post-elettorale che non poteva durare a lungo. Nel suo intervento del 20 agosto il primo ministro ha strigliato Salvini per i suoi eccessi e comportamenti. Ha, probabilmente, omesso di riconoscere che l’atto più grande d’irresponsabilità di questi ultimi anni è stato quello del M5S quando ha accettato di incamminarsi in un’esperienza di governo con Salvini senza comprendere gli esiti che si prospettavano.
Su di un piano diverso lo stesso Matteo Renzi ha fallito, anche e soprattutto, quando sembrava in grado di proporre un mutamento radicale; anzi ha fallito proprio nel modo in cui ha gestito quel tentativo. Rottamare è stato un verbo alla moda, ma alla fine è sembrata una smania di allontanare i vecchi piloti e sostituirli con i nuovi. La macchina, nelle sue linee generali, è rimasta quella e il referendum è stato una sconfitta netta.
Nel presente, ascoltando gli interventi, non basta affermare di avere la consapevolezza della necessità di cambiare per riuscire nel cambiamento; non basta aggiungere parole come “digitale”, “ecosostenibile” e così via, per essere innovativi e nuovi.
Nuove, nuovissime, più che nuove, supernove: le proposte politiche hanno scelto di presentarsi così.
Nel mondo delle stelle, con i dovuti distinguo, le supernove a un certo punto esplodono e si arriva ai buchi neri.
Mi scuso per le semplificazioni operate per ovvie necessità: nella banale Seconda Repubblica (o all’avvio della Terza) ha fallito la politica, quando si è presentata come politica; ha fallito l’antipolitica che voleva cambiare la politica.
Calcoli di bottega, limiti culturali, eccessi di furbizia e scarsa visione possono essere alcuni fattori da trattare.
Basta pensare ai giochi che di volta in volta sono stati attuati sulle leggi elettorali (il mostro che abbiamo chiamato “Rosatellum” è solo l’ultimo) per capire che, forse, non ci sono davvero condottieri visionari per cambiare il paese.
Non solo scarsa lungimiranza, non solo affezione per il potere e per le poltrone: il risultato finale è che ogni volta che s’invoca il paese “reale”, ci si rende conto che la distanza con la politica aumenta e che il ceto politico resta schiacciato in linguaggi autoreferenziali e spende quasi tutte le sue energie per il mantenimento del potere.
Questo quadro è preoccupante? Da questo quadro dobbiamo, però, ripartire per liberarci delle zavorre dell’antipolitica che si allinea alla peggiore politica, e provare a generare una classe dirigente capace di una vera visione innovativa e riformatrice.
Antonio Fresa
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