
1961: l’America è ancora segregazionista. Sei anni prima c’era stato lo strappo di Rosa Louise Parks, che si era rifiutata di cedere il posto ad un bianco su un autobus; due anni dopo ci sarebbe stato il celebre discorso di Martin Luther King al Lincoln Memorial di Washington (quello dell’I have a dream, per intenderci). L’aria, per le strade, è tesa: ci sono picchetti, cortei, scontri dei manifestanti con le forze dell’ordine. Ma questo fermento, all’interno degli uffici della National Aeronautics and Space Administration, sembra non esser percepito. Alla NASA ci sono settori, bagni, mense e persino caffettiere separate per bianchi e neri; l’eco della protesta, però, pare non essere arrivato. Tutto procede come se lo spazio interno alla struttura fosse impermeabile ai cambiamenti. Tutto, insomma, va avanti come sempre.
Almeno fin quando tre matematiche molto dotate ed altrettanto determinate non decidono di perseguire con forza il loro obiettivo, di inseguire un sogno che pareva fino ad allora irrealizzabile, di andare al di là dell’immaginazione e “vivere l’impossibile”. Le tre donne, le “figure nascoste” del titolo originale del film e del libro da cui è tratto (per inciso, figure vuol dire anche “cifra”, da qui il doppio senso – cifre nascoste / figure nascoste – che anche il titolo italiano riprende nel duplice significato di “contare”), sono la prima afro-americana a diventare ingegnere, Mary Jackson; la responsabile della West Area Computer, Dorothy Vaughan; e, soprattutto, la matematica che ha fatto i calcoli per il primo lancio nello spazio, per il primo lancio orbitale e per molte altre missioni spaziali (compresa quella dell’Apollo 11 che portò l’uomo per la prima volta ad approdare sul suolo lunare), Katherine Johnson.
Tra l’incubo atomico degli anni della guerra fredda e la spasmodica corsa alla conquista dello spazio (con capsule claustrofobiche che rischiano di perdere lo scudo termico e trasformarsi in una palla di fuoco al contatto con l’atmosfera), prende forma, allora, una vicenda di emancipazione da un duplice ordine di discriminazioni: quello della donna all’interno di una società essenzialmente maschilista e, soprattutto, quello delle persone di colore in un contesto dominato da una cultura e da una legislazione segregazioniste. E proprio la sfida tra russi e americani all’occupazione delle rotte orbitali fa da contraltare alla lotta per l’eguaglianza dei diritti tra bianchi e neri, come peraltro ci suggerisce l’arringa di Mary Jackson al giudice che deve consentirle di poter frequentare una scuola per soli bianchi: se Alan Shepard è stato il primo americano a volare nello spazio in un volo suborbitale, Mary chiede di essere la prima donna afro-americana ad entrare in una scuola riservata ai bianchi. Come dire: ad un tassello nella guerra a distanza con i russi per chi comanderà al di là dell’atmosfera, fa da pendant un tassello nella lotta di emancipazione dalla cultura segregazionista. E se tutto questo appare “inaudito”, ben venga; perché ciò che si mette in scena con Il diritto di contare è proprio l’utopia del “vivere l’impossibile”.
D’altra parte, l’impossibile è quello che viene chiesto alle tre matematiche. A Katherine, in particolare: “guardare oltre i numeri, guardarli intorno, attraverso, per risposte a domande che non sappiamo nemmeno formulare, per una matematica che ancora non esiste”. Cioè, appunto, andare oltre il pensiero consolidato, al di là del senso comune. Lo stesso andare oltre che condurrà Katherine, Mary e Dorothy a sfidare i pregiudizi e la cultura del tempo ed a scardinare le regole di una società miope che guarda al colore della pelle prima che alle capacità individuali.
Durante il difficile percorso di emancipazione, le tre matematiche appaiono legate alla loro condizione di persone discriminate da una sorta di filo invisibile che, come in un beffardo gioco dell’oca, pare riportarle sempre al punto di partenza tutte le volte cercano di allontanarvisi. Così accade a Katherine, costretta a servirsi dei bagni per donne di colore ed a tornare nel settore riservato ai neri ogni qualvolta debba recarsi alla toilette; per Mary, che non può iscriversi alla facoltà di ingegneria senza aver prima frequentato i corsi di una scuola che però è per soli bianchi; a Dorothy, responsabile di fatto di un ufficio, ma senza che le venga riconosciuta la qualifica e la relativa paga.
La svolta, però, arriverà per tutte. Per Katherine, con una spranga di ferro che, con simbolica violenza (la violenza delle lotte per l’emancipazione dei neri, quella verbale dei discorsi di Martin Luther King – evocato nel film –, quella degli episodi che si consumano sullo sfondo delle proteste nere), abbatte la targa metallica che indica il bagno per signore di colore; per Mary, con una pronuncia che, rovesciando un paradigma consolidato in Virginia (nonostante la sentenza Brown del 1954 che aveva dichiarato incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche), le consente di frequentare una scuola riservata ai bianchi; per Dorothy, con una doverosa promozione di fronte all’evidenza delle capacità, della risolutezza, dell’indiscusso talento.
Il lancio nello spazio del febbraio 1962 di John Glenn, il primo statunitense ad entrare in orbita, pone fine al film ed è l’ultima delle vicende storiche che vi vengono narrate. Oramai, però, anche il percorso di emancipazione delle tre donne appare compiuto.
Tratto da Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race di Margot Lee Shetterly, candidato a tre premi Oscar (in quella che è stata considerata, tra le recenti, l’edizione più politicamente connotata), Il diritto di contare è un film drammatico, teso a tratti, che si muove però, in diversi momenti, con la leggerezza di una commedia. Le “scene-madri”, che il film non lesina, sono bilanciate dall’ironia di uno splendido cast. Insomma: dramma, leggerezza ed ironia per una pellicola che, in pieno stile american dream, affascina e coinvolge.
Gianfranco Raffaeli
Scheda del film:
Titolo originale: Hidden Figures
Genere: Drammatico
Origine/Anno: USA/2016
Regia: Theodore Melfi
Sceneggiatura: Theodore Melfi, Allison Schroeder
Interpreti: Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst, Jim Parsons, Mahershala Ali, Aldis Hodge, Glen Powell, Kimberly Quinn
Montaggio: Peter Teschner
Fotografia: Mandy Walker
Scenografia: Wynn Thomas
Costumi: Renée Ehrlich Kalfus
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