
In queste sere invernali al teatro Vittoria di Roma rivive il genio di Ennio Flaiano con il suo Melampo; mercoledì sera, poi, c'è stato un appuntamento unico e speciale, con altri suoi soggetti e scritti. Affidate al gelosino, il magnetofono che negli anni '60 fu il suo nuovo “giocattolo”, le parole e le idee del maestro sono riecheggiate in sala, ovattate, lontane.
La sua presenza era tangibile, quasi evocata, l'emozione forte: è la prima volta che il pubblico ha potuto ascoltare un'intervista esclusiva, in cui Flaiano anticipa il titolo della commedia che stava scrivendo “Il divano meridionale”; poi gli appunti sul soggetto, dettati a sé stesso ed una prima traccia di sceneggiatura. A luci basse, nel silenzio della sala la sua voce registrata si allontana, sfuma e dal palco a raccogliere il testimone c'è Massimo De Rossi, voce narrante, interprete, cacciatore di testi, regista; è lui che guida questa sorta di macchina del tempo e ci trasporta nel futuro, nell'epoca di ambientazione della commedia, il 2030.
Siamo in una grande città, in cui gli uomini hanno bandito emozioni e sentimenti. Tutto è perfetto, grazie alle macchine ogni attività, questione o problema è risolto; ci sono macchine sofisticate che soccorrono l'uomo in tutto, ormai, proprio tutto, compresa la soddisfazione delle pulsioni sessuali. L'umanità da anni può finalmente godere di sé in assoluta e imperturbabile serenità ed è in questa conquistata pace dei sensi in questa assenza perfetta, che si infiltra un giorno nella vita di Orlando, il protagonista, un'intrusa corrosiva pericolosa, pervasiva, la noia. La tentazione di eluderla innescherà una serie di pensieri proibiti, consapevolezze, idee di disobbedienza al sistema e alle sue regole, ricordi che sono vere e proprie trasgressioni; queste avranno la forza trainante di ricondurre Orlando in campagna, lontano dalla città e dal progresso. È in campagna che egli ha trascorso la sua infanzia in compagnia di Angela, sua cugina. Ed è lì, nel salotto di nonna Speranza, così kitch eppure così confortevole, con tutti quei libri veri di carta, da sfogliare, annusare, toccare, sentire con le mani e nella testa, che Orlando ritrova sé stesso. Ripensa al passato, riascolta le proprie antiche emozioni, rivive l'attrazione, il modo primitivo di sentire, lasciandosi travolgere dai sensi.
Purtroppo proprio qui, sul più bello, il nastro si interrompe. Non ci sono altri appunti di Flaiano, non ci sono altre tracce. Non sapremo mai come finirà, cosa sarebbe accaduto secondo lui alla passione nata tra Orlando ed Angela, dove li avrebbe portati, non sapremo mai perché la commedia si intitoli così.
Non posso fare a meno di provare a immaginare.
Cosa avrà mai potuto rappresentare Il divano meridionale in questa storia: un simbolo del ritorno all'edonismo, lo strumento di ricerca di un nuovo confort, misto di relax e trasgressione, un luogo dei ricordi, una sorta di pensatoio evocatore delle passioni, un sito di trasferimento e di passaggio, omologo al tappeto volante, una terra di confine tra due diverse realtà, chissà? In fondo questo era il dīwān in Persia, un ufficio di confine, una dogana, in cui l'unico arredo disponibile era proprio un sedile, che poi abbiamo preso tutti a chiamare così, divano.
De Rossi ci regala un'altra chicca, un altro scritto di Flaiano, un manifesto per risolvere la crisi dei teatri che egli già negli anni '60 aveva prefigurato. Ironico e paradossale contiene ogni tipo di proposte, le piu' varie: trasformare i teatri in campi da mini golf, oppure in piscine, con i tecnici riconvertiti a bagnini a vigilare sui tuffi dai diversi ordini di spalti. Poi la soluzione finale, quella piu'interessante: dichiarare morte ai teatri, bandirli, proibirli assolutamente; in questo modo, clandestinamente, sarebbero potuti tornare a prosperare, così come era accaduto negli anni del proibizionismo per alcol e gioco d'azzardo.
Visione malinconica e ribelle, quella di Flaiano, in fondo un disobbediente, come tutti gli innovatori.
Dalla finzione alla realtà l'attenzione torna in sala, sul palcoscenico ora sono saliti Viviana Toniolo, direttore artistico del Vittoria e Pino Strabioli, attore regista, grande appassionato di teatro. Ringraziano il pubblico per aver accolto l'invito a questa serata speciale e gli sponsor per aver offerto a tutti i presenti una cena gustosa; raccontano in confidenza, come tra amici, l'amara sorpresa autunnale dei tagli ai sostegni ministeriali, di cui questo teatro vive, sopraggiunta a stagione teatrale programmata e ad impegni contrattuali già perfezionati. Affermano di aver bussato a tutte le porte istituzionali, di aver sperato in un reintegro dei finanziamenti, di averlo pure ottenuto, ma è stato così poco, quasi un nulla rispetto alle reali esigenze di spesa di cui la macchina del teatro, l'azienda teatro, necessita, per poter proseguire il proprio cammino. Il loro è un appello di resistenza agli attori, ai tecnici, ai media, al pubblico: il Vittoria non si arrende, va avanti nonostante tutto e ha deciso di festeggiare questa scelta con un gesto di ospitalità, offrendo a tutti uno spettacolo unico e indimenticabile, così come solo il teatro e la sua gente sanno fare.
Mentre rientro a casa passo in rassegna cosa poter fare, regalare dei biglietti ai compleanni, fare un abbonamento, rifletto sul coraggio dell'arte, sullo spettacolo di stasera e il pensiero passando dal 2030 di Flaiano si aggancia all' Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, nuovo quadro strategico delle Nazioni Unite. Ricordo che sono 17 gli obiettivi universali a cui ci siamo impegnati tutti e che l'obiettivo 4 è migliorare la qualità dell'istruzione:
“Fornire un'educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.
Con il teatro si può. Ricordiamocelo.
Sabrina Mancini
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