Il gioco del silenzio. Episodio 1

Paola Anatrella Il gioco del silenzio.
history 10 minuti di lettura

Poche righe per illustrare un progetto di narrativa, pittura e fotografia.

Ho scritto un racconto, l’ho fatto leggere alla mia amica Paola Anatrella e le ho chiesto di “illustrare” la storia. Paola si è rivolta a Silvio Pirillo, il maestro della scuola di pittura di Napoli, Ramiè di cui fa parte da alcuni anni, perché eseguisse le fotografie professionali, necessarie a trasformare i suoi dipinti in immagini da pubblicare.
Ed eccoci qui, Il gioco del silenzio è diventato un gioco di squadra, i nostri talenti si sono affiancati senza sovrapporsi e ci abbiamo guadagnato tutti, si spera che il pubblico possa gradire.

La copertina de “Il gioco del silenzio”: Paola Anatrella, acquarello su carta 35×23
Il palazzo di Marinella: Paola Anatrella, acquarello su carta 23×32
Fotografia: Silvio Pirillo

Il gioco del silenzio

E lui che non ti volle creder morta
Bussò cent’anni ancora alla tua porta.
(Fabrizio De Andrè, 1966)

 

The truth is never far behind,
You kept it hidden well.
(Live to tell, Madonna. 1986)

[La verità non è mai lontana dietro di te,
tu la tieni ben nascosta]

 

La verità non è mai segreta, si trova sotto ai nostri occhi, ma noi ci illudiamo di “scoprirla” non appena diventiamo capaci di accoglierla, accettarla, sopravvivere ad essa.
Cosicché non tutto deve essere o può essere rivelato.

N.d.A.

Paola Anatrella Il palazzo di Marinella
Paola Anatrella, Il palazzo di Marinella:. Acquarello su carta 23×32. Foto Silvio Pirillo

Il nonno era riuscito a sorprenderlo anche da morto, pensò Luca, mettendosi in sella alla sua moto.
Elio era il suo idolo, insieme a nonna Clara, ma lui un poco di più: alto con i capelli folti e immacolati, abbronzato quasi per tutto l’anno, elegante, sempre sbarbato e profumato, sempre attento a cedere il passo a sua moglie. Non si era meravigliato Luca che i suoi genitori avessero divorziato. Come poteva accontentarsi sua madre di un uomo qualunque con un padre così speciale?
La casa dei nonni era la sua vera casa, non quelle di mamma e papà in cui veniva “ospitato” a week end alternati. Era cresciuto sognando di diventare come il nonno. Un uomo di successo, romantico e appassionato che faceva gli occhi languidi ascoltando la musica. Una volta, quando era ancora un ragazzetto, lo aveva scoperto a singhiozzare nel suo studio sulle note di La canzone di Marinella.
«De Andrè è un poeta» sospirò. Quelle lacrime virili lo avevano consacrato “vero eroe” ai suoi occhi.
E adesso era costretto a imparare a vivere senza di lui.
Era toccato a Luca accompagnarlo nella maestosa clinica spalancata sul golfo il giorno in cui era stato male.
«È un bel posto per morire» aveva detto Elio entrando, gli occhi già acquosi e spenti: lo sapeva; i sintomi dell’infarto c’erano tutti, per questo Luca aveva trovato strana la pausa davanti a un portone di via Martucci che aveva implorato prima di andare in clinica e che il nipote non aveva potuto negargli.
«Qui abitava Marinella. Se non fosse morta, ci saremmo sposati» aveva detto e, all’improvviso, a Luca era parso che tutte le torte capresi di sua nonna fossero diventate amare. Aveva avvertito una stretta allo stomaco e non aveva potuto domandare altro.
Da quel giorno guardava nonna Clara con più tenerezza, domandandosi se sapesse. Luca si era reso finalmente conto del perché, nelle foto di Natale, suo nonno veniva sempre con un’ombra nello sguardo, come se fosse in attesa di qualcuno che non sarebbe arrivato.
Si era ritrovato davanti a quello stesso portone di via Martucci dopo un paio di settimane, in una mattina di gennaio, una di quelle insolite mattine di gennaio, in cui splende il sole. Si era fermato a lungo, tanto da destare l’attenzione del portiere che si era avvicinato.
«Qui abitava un’amica di mio nonno, Marinella si chiamava» rispose sentendosi imbarazzato e fuori posto come quando gli capitava di ascoltare una telefonata di suo padre o di sua madre troppo confidenziale per essere di lavoro.
«Ah! ho capito sei il nipote di Elio» gli aveva detto l’altro, con un tono affettuoso, dandogli improvvisamente del tu.
«Nonno Elio, lo conosceva»
L’uomo diede l’idea di riflettere se fosse davvero il caso di parlare con il ragazzo.
«Per favore, mi dica cosa sa di mio nonno.»
Il portiere si morse il labbro nel tentativo di stare zitto, ma in realtà era dalla morte di Elio che desiderava parlare di lui con qualcuno.
«Aspetta, tra un quarto d’ora finisco il turno e vieni con me a prendere un caffè a casa.»
Luca decise di ingannare l’attesa aggirandosi nel cortile dello stabile. Superato l’arco sotto cui era sistemato il gabbiotto della portineria, entrò nella parte più ampia dell’atrio scoperto e racchiuso dalla coreografica cornice del palazzo, al centro un’aiuola, curata a regola d’arte, ricca di piccole palme e di felci. Il bell’edificio signorile, con pochi appartamenti spaziosi, come si intuiva dallo scarso numero delle cassette postali e dall’ampiezza della costruzione, aveva le pareti delle due scale ricoperte da maioliche di Vietri. Sul terraneo c’erano delle panchine in muratura anche esse ricoperte di maioliche. Decise di sedersi, godendosi i raggi del sole fuori stagione.
Terminata l’attesa, il portiere, che aveva detto di chiamarsi Tommaso, lo fece entrare a casa sua e gli presentò sua moglie che, senza neanche dargli il tempo di accettare, andò a preparare il caffè. E così davanti a una tazzina fumante, Luca scoprì che Marinella non era affatto morta.
«Questo lo disse a tuo nonno quando lei lo lasciò: se non ce la fai a starmi lontano, fai finta che io sia morta. La signora Marinella vive ancora qui. Ha sempre vissuto qui.»
Luca impallidì.
«No, ma non erano amanti, non ti preoccupare. Tuo nonno veniva qui solo d’estate quando lei va a Sorrento. Non si sono mai incontrati. Diceva che aveva bisogno di tornare davanti alla sua porta, io lo facevo salire. Era una brava persona. Restava sul pianerottolo per una mezz’oretta, poi ci prendevamo un caffè, proprio qui, come io e te adesso.»
«Ma lei, Marinella, ha mai saputo di mio nonno?»
«No, mai, me lo aveva fatto giurare.»
«Perché, secondo lei non ha voluto incontrarla?»
«Lui diceva che amava la Marinella che era stata prima di morire. Ci capisci qualche cosa?»

Nella grande cucina piena di sole, Clara si affaccendava con il forno, era una donna ancora molto energica. Da giovane aveva giocato nella squadra di palla a canestro cittadina e per un periodo ne era stata il capitano. Di quel tempo conservava la muscolatura atletica, l’agilità delle articolazioni, la destrezza nel coordinamento occhio – mano ma anche la capacità di gestire i gruppi, motivarli, diventarne la leader, senza neanche chiederlo.
Continuava a tingersi i capelli, adesso ondulati e di media lunghezza, del castano naturale di quando aveva conosciuto suo marito. Gli occhi marroni, che diventavano verdi quando vi si rifletteva il sole, erano intelligenti e mobilissimi.
Scontava la sua fisicità avvenente con la pressoché totale assenza di seno, le spalle larghe e le scapole arrotondate rendevano comunque piacevole il suo decolté.
«Perché continui a fissarmi, Luca, ti sei incantato?»
«Scusa, nonna, mi chiedevo se stessi bene.»
«Bene? Come dovrei stare? Non mi è mica morto il canarino!»
«Scusa, hai ragione» balbettò, sperando di chiudere l’infelice conversazione.
«Tutti a chiedermi se sto bene, tu, tua madre, le mie amiche. Quelle poi non fanno che telefonare.»
«Magari pensano di confortarti, una volta tanto vogliono essere loro a fare qualcosa per te, è una novità, non sanno cosa dirti.»
«Beh, potrebbero semplicemente stare zitte, non trovi?»
«Sì, nonna, potrebbero stare zitte.»
«Ora porta questo di là», concluse consegnandogli tre bicchieri da portare in camera da pranzo dove stava per raggiungerli Maristella, rispettivamente madre e figlia di loro due.
Non aveva mai sbagliato con il numero dei bicchieri o delle posate, mai ne aveva presi quattro fin da quando Elio era morto. La matematica implacabile della sua mente aveva subito registrato la variazione delle presenze fisiche e le mani si erano adeguate docili, tutto il corpo si era repentinamente adeguato al non ritorno: nel letto occupava tutto lo spazio, nel bagno disponeva l’unica asciugamano personale al centro dell’asta che prima ne ospitava due, la caffettiera utilizzata normalmente iniziò ad essere “quella piccola”, cioè quella che Elio si preparava di sera tardi, per restare sveglio e da solo, sapendo che sua moglie non avrebbe bevuto caffè.
Erano passate soltanto due settimane della morte improvvisa di suo marito, in quel gennaio freddo e piovoso, una stagione che lei detestava.
Non aveva continuato a sentire la sua presenza nella casa, come avevano raccontato altre vedove per sottolineare l’esistenza di un legame che non poteva essere spezzato e che anzi, con la morte, era diventato paradossalmente indistruttibile.
Quei mariti che, da vivi, le poverette avevano dovuto inseguire nei loro silenzi o nelle strade cittadine in ronde di controllo, che erano state costrette ad accompagnare in cene con parenti sgraditi e in altre occasioni poco piacevoli, che avevano dovuto affrettarsi a raggiungere quando erano troppo veloci per strada e le precedevano nelle passeggiate come volessero seminarle; da morti se ne stavano meravigliosamente immobili dietro il marmo di una lapide. Niente e nessuno avrebbe più potuto portarli via e nessun accidente poteva scomporre il mosaico di senso con cui le vedove avevano rappresentato la loro intera esistenza.
Per Clara non era stato così. Elio era una presenza costante e sollecita, attenta ai dettagli senza diventare petulante, generoso nei complimenti come in qualsiasi altra cosa. La sua assenza era un enorme vuoto chiuso e assordante di cui non voleva capacitarsi.

Potrebbero stare zitte, le parole della nonna risuonavano nella sua mente, accompagnandolo per tutto il giorno, alcune volte consapevolmente, altre in sordina; soltanto a letto, nel loft affacciato sul golfo, si concesse il lusso di seguire la traiettoria che quelle parole segnavano.
Ricordò tutte le volte della sua vita in cui era stato zitto e non aveva fatto domande. Non ne aveva fatto a sette anni quando vide suo padre uscire di casa con la valigia, né a dieci quando andò a cena in quella sua strana nuova casa e trovò apparecchiato per tre invece che solo per loro due. Non chiedeva nulla a sua madre quando correva a piangere nel bagno, quando bisbigliava al telefono, quando lo stringeva forte forte senza motivo. Non aveva chiesto a Matilde, tre mesi prima, perché lo stesse lasciando, così all’improvviso e, quella mattina, non aveva chiesto nulla a Tommaso, il portiere di via Martucci.
Soltanto Elio e Clara non avevano mai fatto o detto nulla che non fosse stato per lui completamente chiaro. Loro gli spiegavano i motivi di ogni comportamento, ciascuno a modo proprio lo preparava alla vita, augurandosi in cuor suo di essere preso a modello. I valori che cercavano di trasmettergli all’unisono, almeno per quanto lui percepisse, erano: disciplina, rispetto delle regole e rispetto degli altri, irriducibile volontà di riuscire.
A loro, solo a loro, non aveva mai avuto nulla da chiedere. Durante la sua infanzia e adolescenza, le loro immagini si erano stagliate granitiche nella sua mente e la loro maestà aveva reso indeterminata e sfuggente ogni altra figura adulta.
Tutti i dubbi inespressi, instillati dagli altri, stavano minando la sua identità, si sentiva all’improvviso come il protagonista di una favola che, a metà della storia, si accorge di non conoscere le pagine precedenti.
Quella notte dormì poco e male e allo studio fu pigro e svogliato, i colleghi pensarono che fosse per il recente lutto e anche sua madre, sentita rapidamente al telefono, gli disse «ti voglio bene, lo sai, vero?» come non faceva da tanto tempo.
Quando era ragazzo glielo chiedeva spesso:
«Ti voglio bene, lo sai?»
Voleva più di ogni altra cosa che il figlio avvertisse di essere amato, soprattutto quando la sua vita di lei non procedeva nella maniera desiderata.
«Sì, mamma, lo so, sei mia madre!».
Quello scambio di battute, ripetitivo e consolatorio, suonò vuoto e inutile quel giorno e nessuno dei due si sentì alleggerito.
Luca stabilì di tirare fuori da sé stesso tutti i dubbi che aveva ingoiato negli anni, e di voler sapere tutte le verità che fino a quel momento aveva schivato.

Stefania Squillante

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