
Nik Rider, Zagor, Ken Parker, Nathan Never, Julia, Manara, Luca Enoch, Tex… Ero onnivoro. Quando prendevo la metropolitana mi fermavo sempre all’edicola e acquistavo un fumetto da leggere durante il percorso. Mi inebriavo con quelle avventure, famelico. Mi distraevano dalla folla, dai pensieri, e precipitavo in quei mondi di carta. Da ragazzino tramite amici mi arrivavano sacchetti pieni di fumetti usati, li leggevo con avidità. Finiti li scambiavo calcolando con attenzione i prezzi di copertina. Diventava quello il metro di misura di contrattazioni furibonde, che a volte sancivano la fine di amicizie che avevamo giurate eterne.
Nei fumetti cercavo le storie, del segno mi importava poco. È solo con il tempo che ho imparato a distinguere i diversi disegnatori, il segno grafico, la personalità artistica di ognuno di loro. Ho adorato Manara, il suo immaginario erotico e Miele, fantastica eroina a cavallo tra il porno e l’onirico, tra libertà e avventura.
Ho trovavo superbo il binomio Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo, il loro saper parlare con delicatezza e acume di temi caldi su un fumetto popolare come Ken Parker, Lungo fucile. Nelle sue avventure si affrontava di tutto, dal razzismo con Milady all’omosessualità con Dritto e rovescio, e ancora di disabilità e sessualità e di molto altro ancora. Ho pianto con Persepoli di Marjane Satrapi.
Quando mi è capitata l’occasione, quando l’ho cercata, ho intervistato Luca Enoch lo splendidamente folle autore del magistrale Gea. Gea mi ha tenuto compagnia per nove anni, ne usciva un numero ogni sei mesi. Era una fedeltà ben riposta. Poi ho dialogato con Luca Masiero, direttore editoriale della Bonelli.
Oggi ho voluto continuare questa serie virtuosa intervistando Luigi Pittaluga, uno dei più raffinati disegnatori di Julia. Era da tempo che non prendevo in mano i suoi albi. Ho sfogliato i primi tre numeri: Gli occhi dell’abisso, Oggetto d’amore, Nella mente del mostro.
Il numero uno è davvero un piccolo capolavoro, un po’ splatter, un po’ psico-socio-intellettual-sofisticato, ma di sicuro effetto narrativo. Curatissimo come d’altronde sono sempre i lavori di Giancarlo Berardi.
Ho ritrovato il mondo di Julia con Emily la domestica di colore che accudisce Julia, la Morgan 4×4 del ’67 che fa i capricci ma è tanto di classe con la sua capotte e il suo stile un po’ retrò. Ho ritrovato il tenente Webb sempre litigioso e polemico, Leo Baxter occhio privato un po’ invaghito di Julia, che appartiene alla tradizione dei detective hard boliled alla Marlove, un po’ più tenero e addolcito forse. C’erano anche Norma la sorella di Julia e Lillian la nonna che le ha cresciute.

Ho ritrovato vecchi amici. Mi hanno commosso così come fanno i visi che appaiono iprovvisamente dopo un lungo distacco. Ho trovato nuovi volti, nuove voci, come quella di Luigi Pittaluga.
Chi è Luigi Pittaluga?
Luigi Pittaluga è un uomo di quasi 50 anni, di origine romana, che nella vita ha scelto di fare fumetti.
Quando l’hai scelto?
L’ho scelto durante il servizio di leva nei vigili del fuoco. Ero stato assegnato a un ufficio operativo da dove controllavo l’efficienza degli automezzi di tutto il Lazio. Era il periodo dell’alluvione in Lombardia, la prima grande alluvione che ci fu nel ‘91. Il mio lavoro lo dovevo trasferire tutto su pc, nei buchi mi divertivo a disegnare i supereroi e gli automezzi dei vigili del fuoco tramite quel programma ormai arcaico che si chiama Paint Brush di Microsoft. Riprendevo così un amore che avevo un po’ lasciato perdere durante gli anni del liceo, cioè disegnare. Disegnavo supereroi, soprattutto L’uomo Ragno, poi li passavo agli altri vigili del fuoco che li inserivano come schermata nei loro pc. A quello che si occupava degli elicotteri disegnavo l’elicottero, a quello che si occupava delle autobotti le autobotti, e così via.
Come passi dal divertimento al professionismo?
Uno dei vigili del fuoco era anche un musicista. Quindi aveva proprio tutto un altro spirito d’osservazione. Un giorno, vedendo che passavo tutto il tempo libero a disegnare, mi chiese perché non lo facevo come lavoro. Mi mise una pulce nell’orecchio. Ritornai con la mente ai tempi delle medie, ma anche prima, a quando aspettavo il weekend per andare fuori porta con i miei e passare all’edicola del paesino dove vendevano le raccolte degli album invenduti. E io non vedevo l’ora di comprarmi i vari Mister No, Zagor, Tex e via dicendo. Finito il servizio di leva, mi segnai come vigile del fuoco discontinuo e con i soldi che ho guadagnato mi iscrissi alla scuola romana di fumetti, che in realtà presi un pochino sottogamba. Perché come quasi tutti non mi rendevo conto di che vuol dire effettivamente fare fumetti, di quanto sia lungo l’iter, della visione a 360 gradi che bisogna avere per poter fare anche una sola pagina a fumetti.
Perché bisogna avere questa visione a 360 gradi?
La maggior parte delle persone, e questa infatti è stata la pecca di molti che ho conosciuto in quel periodo, pensa che per fare fumetti basta saper disegnare. È una bugia. È un’enorme bugia. Ma proprio di quelli gigantesche.
Che cos’altro bisogna saper fare?
Bisogna saper raccontare.
È un po’ quello che mi accade con la fotografia. Tecnicamente non sono un granché. Però il mio pregio è saper raccontare, saper accostare le immagini, saperle scegliere in modo da trovare un filo conduttore.
È esattamente questo. Io tiro sempre fuori un esempio. C’è stato un disegnatore negli anni Novanta che spopolò in Bonelli, Claudio Castellini, che disegnò il numero uno di Nathan Never e divenne molto famoso per questo. Però Castellini, per quanto disegnatore eccelso, nella narrazione invece non è mai stato eccezionale. Tant’è che gli sceneggiatori gli criticavano le sue scelte, che erano a volte più legate al leziosismo delle capacità tecniche che al racconto. Invece le cose devono andare di pari passo. Se non vanno di pari passo il lavoro che ne esce fuori può essere sicuramente di bellissimo impatto ma di difficile lettura. L’esempio più classico è Watchmen. Ha un disegno che dal punto di vista talentuoso non è che sia chissà quale capolavoro. Ma è un disegno che sposa perfettamente la linea narrativa di Alan Moore di Watchmen. Quindi tutto risulta poi alla fine un capolavoro.
Quando arriva il tuo primo ingaggio?
Un maestro a cui sono tutt’ora molto legato, Maurizio Di Vincenzo, vide la mia caparbietà, capì che cercavo di superare quella piccola grande presunzione che si ha quando si è agli inizi, e si pensa che per fare fumetti basti saper disegnare o che sia un lavoro semplice. Mi legai a lui, e tramite lui sono arrivato prima a cercare di realizzare un progetto per il mercato francese, un progetto auto prodotto, con uno sceneggiatore che conosceva lui e io ai disegni. Nel mentre, siccome lui era già in Bonelli, venne fuori la notizia che in Bonelli cercavano nuovi disegnatori. Mandai delle pagine di prova, non inerenti a Bonelli, perché all’epoca non ne avevo pronte. Erano delle pagine molto in linea con quello che facevo prima, quindi molto alla Vittorio Giardino e volendo anche alla Milo Manara. A Bonelli piacquero tanto e mi presero. Mi dissero che potevano inserirmi in Nick Raider. Così iniziai.

A quali personaggi hai lavorato nel corso del tempo?
Ho lavorato sempre ed esclusivamente a personaggi della Bonelli, a parte un lavoro fatto per la scuola romana di fumetti e per il Museo di via Tasso della Liberazione di Roma, che era appunto la Storia della liberazione di Roma. Poi sono stato affiancato a Julia. Ho realizzato un albo delle storie dal titolo Il condannato. Poi ho realizzato il numero dieci di Orfani seconda stagione. In seguito sono rientrato nello staff di Julia e tuttora disegno il personaggio femminile per eccellenza della Bonelli.
Come definiresti il tuo stile?
Faccio fatica a rispondere semplicemente perché è una cosa a cui non ho mai pensato. Ti posso rispondere dicendo cosa hanno detto a suo tempo del mio stile, cioè che è solido e classico.
Mi sembra di capire che hai lavorato prevalentemente a fumetti di stampo realistico. Quali tecniche usi?
Sono ancora analogico. Quindi uso foglio, matita, pennino, pennello.
Quindi vai sul classico.
Adesso ti sto parlando mentre ho in mano un pennino.
Quali sono le sfide che impone un personaggio come Julia?
Le sfide che impone un personaggio come Jiulia sono innanzitutto legate allo stile narrativo della serie. Quella secondo me è la cosa più difficile come primo approccio. Per stile narrativo s’intende il fatto che i tempi narrativi che esistono in un fumetto possono essere molto vari tra una vignetta e l’altra. Come scriveva Will Eisner c’è uno spazio bianco tra una vignetta e l’altra. Eisner è stato un maestro del fumetto, lo è tuttora anche se non c’è più. Ha scritto una sorta di Bibbia che è Fumetto o arte sequenziale.
Si chiama sequenziale, proprio perché tra una vignetta e un’altra, e ancora di più tra una pagina e un’altra, c’è uno spazio. Quello spazio in inglese chiamato closure. Questo spazio bianco serve al lettore per collegare le vignette. C’è un processo mentale che proprio si forma. Se non ci fosse quello spazio bianco, sarebbe un’unica illustrazione. Quando si fa un fumetto c’è sempre questo concetto. A seconda di quello che si vuole raccontare le inquadrature che si usano sono funzionali a come il lettore sfrutterà questo spazio. Nel fumetto d’azione le inquadrature saranno delle inquadrature in cui per lo più quello spazio bianco, che noi vediamo, avrà un tempo di lettura minimo per il lettore. Perché la sequenza d’azione dovrà trasmettere velocità, frenesia, e via discorrendo.
Quindi se il ritmo narrativo è frenetico le inquadrature devono essere molto veloci tra loro?
È come quando tu parlavi di fotografia. È la stessa cosa. Se vuoi raccontare con una foto un tempo lungo l’inquadratura che sceglierai, anche se a livello intuitivo, dovrà rappresentare quello. Ad esempio, se sei su un picco di una montagna e fotografi il panorama con una panoramica il tempo di lettura, di osservazione della foto sarà molto lungo. Se invece vai a zoomare su un singolo albero che sta in cima al monte opposto, il tempo di lettura sarà più breve.
Quindi questo stile narrativo ti impone una riflessione accurata a livello di sceneggiatura, di costruzione delle diverse immagini?
Esattamente. E su Julia la particolarità, rispetto agli altri albi Bonelli, è che i passaggi temporali all’interno di una sequenza sono passo per passo. Ad esempio io adesso sto disegnando una scena in cui due personaggi sono di fronte a un oggetto. Uno è a sinistra, uno e a destra e non sono di fronte tra di loro, sono di fronte all’oggetto. A un certo punto della pagina invece si ritrovano di fronte l’uno all’altro. In tantissimi fumetti questo passaggio avviene in automatico, in Julia no, tu devi preparare il lettore, quindi devi durante le vignette iniziare, seppur piano piano, a far muovere i personaggi, a ruotarli finché non arrivano uno di fronte all’altro.

La difficoltà è che in alcune sequenze devi dare dei tempi estremamente veloci in altre sequenze le esigenze narrative invece richiedono un rallentamento. Devi avere la capacità di passare da un registro all’altro.
Esatto. Pur mantenendo però l’altra particolarità della serie, che ha una narrazione molto classica, come potevano essere i film di Hitchcock degli anni Cinquanta. Quindi, in ogni pagina deve essere presente un primo piano, un mezzobusto, un piano americano, una figura intera, e a volte anche un campo lungo. Naturalmente la scelta del primo piano, del campo lungo, e via dicendo, è compito dello sceneggiatore.
Che non sei tu?
Che non sono io. Altrimenti non avrei più tempo libero o avrei tanti soldi.
Immagino che tu lavori a stretto contatto con lo sceneggiatore per un continuo confronto.
Esatto. Noi ci sentiamo mediamente una volta a settimana.
Insomma, tu hai una compagna e poi hai questo fidanzato che è lo sceneggiatore.
Sì. Ho questo fidanzato che nel mio caso che nel caso dell’albo che rto preparando è proprio Giancarlo Berardi.
Quindi non puoi neanche lamentarti del capo. Questa è un’ulteriore difficoltà.
Ma oddio, non me ne posso lamentare con lui, ma fuori da lui sì, certo che mi posso lamentare.
Adoro Berardi, adoro i lavori che ha fatto. Penso che sia un pezzo importante della storia del fumetto in Italia.
Ecco. Se hai presente Ken Parker ti renderai conto che in quel caso c’era un binomio perfetto tra sceneggiatore e disegnatore. A volte fortunamente a me è concesso interpretare quello che lo sceneggiatore manda, ma c’è proprio questa attenzione nell’uso specifico dei campi narrativi, come nel cinema. Quindi il primo piano, il mezzobusto, il piano americano, la figura intera, che serve poi a dare non solo fluidità alla narrazione, ma anche equilibrio alla pagina. Perché l’occhio umano quando legge e osserva, se non vede un equilibrio all’interno di ciò che sta leggendo, si confonde.

Mi porti in quella che è la cucina, il laboratorio di costruzione del fumetto. Dietro c’è un grande lavoro. Il primo numero di Julia si intitolava Gli occhi dell’abisso usciva nell’ottobre del 1998, quindi 25 anni fa. Julia è una docente universitaria, una criminologa consulente della Procura. Per caso o per necessità si trova spesso a indagare su casi irrisolti. Quanto è cambiata Julia in questi venticinque anni e quanto ti è stato concesso cambiarla?
Quando io sono entrato nella serie già era cambiata. È stata cambiata per scelta di Berardi ma su indicazione della casa editrice.
Perché? Non piaceva?
No, no, non perché non piaceva, ma semplicemente perché per Sergio Bonelli, che all’epoca era ancora vivo, la serie era troppo dura. In quanto nel numero tre si vedeva la morte di un bambino. All’inizio tra gli addetti ai lavori di Bonelli la serie si chiamava Julia l’indagatrice dell’incubo. Poi è diventata “Julia l’indagatrice dell’anima, le avventure di una criminologa”. Il personaggio si è dovuto evolvere. Ha sempre a che fare con il noir. Questo è fuori dubbio. Perché tanto lei le avventure nere le ha e collabora con la Procura, con la polizia. Di conseguenza quel mondo è il mondo con cui ha a che fare. Però la serie non è più dura, cruda e nera come era il primo numero, che a mio parere è un capolavoro di narrazione. Quel numero è tutto quello che al massimo della qualità si può fare in un fumetto popolare Bonelli.
Andrò a rileggere allora, guardandolo con occhi più attenti, non soltanto per il gusto di leggere una buona storia.
La cosa è molto semplice. Se tu lo leggi, l’hai letto e ti è piaciuto, e la lettura è stata scorrevole, è proprio perché è raccontato bene. Se no, non lo trovi così scorrevole. È tutto lì. È tutto esclusivamente lì. Non è che c’è altro. A molti sceneggiatori non piacciono i disegnatori egocentrici, leziosi, proprio perché il timore è che vadano fuori sceneggiatura e che quindi quello che lo scrittore ha in mente di narrare non risulti poi nel lavoro finito. Bonelli deve stare una volta al mese in edicola. Quindi, c’è albo e albo in tutti i sensi. Ci sono anche albi in cui il connubio non è magari perfetto, ma tu in edicola ci devi andare perché sei un’impresa.
Bonelli è una grande industria, la più importante nella fumetteria italiana. Non sarebbe meglio se ci fosse una maggiore concorrenza? La Bonelli è quasi un monopolio.
Questo non te lo so dire. Purtroppo stai parlando con un disegnatore che per sua scelta è al di fuori del mondo del fumetto. Io ti posso dire quello che ho visto anni fa quando ancora lo seguivo. Mi sa che non avevo ancora esordito. Ci furono dei fumetti come Lazarus Led, editi da altre case editrici, che sono scomparse. A un certo punto è venuta fuori Samuel Stern Bats. È nata quasi come una scommessa, però le cose le vanno bene, tant’è che adesso stanno lanciando un nuovo fumetto. Quindi piccole realtà concorrenziali ci sono. Però permettersi determinate cifre, determinate tirature, determinate distribuzioni, è un po’ complicato.
Qual è la differenza tra una graphic novel e fumetto popolare come Julia o altre produzioni della Bonelli?
Guarda, non ti so rispondere, in quanto la dicitura di graphic novel è romanzo a fumetti. Io ti potrei dire che per certi versi anche Jiulia è un romanzo a fumetti. L’unica vera differenza è che in linea di massima una graphic novel è un unicum. Invece un prodotto come quello a cui io collaboro è una serie. Ma questo vale in linea di massima, perché a volte se la situazione editoriale è favorevole le cose cambiano. Però ripeto, parli con una persona che da questo punto di vista ti sa dire poco. A volte quando sento parlare anche in radio di fumetti è a sproposito, ne sento di cotte e di crude. E fra me e me mentre lavoro sorrido.
È difficile dire cose che abbiano un senso.

Più che altro è difficile dire cose che non si fanno.
Che cosa intendi?
Io non faccio fotografia. Non mi posso mettere a parlare di fotografia. Posso dire se una foto mi piace o meno. Ma mica posso mettermi a parlare di un fotografo, di quale tecnica usa, se è bravo, che vuol dire un determinato termine usato in campo fotografico?
Ogni numero di Julia ha centodieci pagine. Quanto tempo ci metti per realizzare un numero?
Ci metto dagli undici ai dodici mesi.
Lavorando otto ore al giorno?
Lavorando almeno sei giorni su sette, dalle sette alle dieci ore. Questa è un’altra cosa che chi non ha mai parlato con un disegnatore di fumetti non sa.
Lavori sei giorni su sette, fai poche vacanze, lavori in solitaria. Ne vale la pena economicamente?
No.
La risposta è precisa.
Lo fai per passione?
È l’unico motivo, l’unico. Non ne hai altri. Per esempio in America mediamente un disegnatore di fumetti della Marvel, che non sia uno famoso, campa a New York con 20mila dollari l’anno. Che ci fai con 20mila dollari l’anno a New York?

Che dimensioni hanno i disegni che prepari?
Sono di media grandezza. Naturalmente rispetto alla stampa sono molto più grandi. Ti posso dire che la pagina che io squadro e che sarebbe quella che vedi stampata, non con il bianco e quindi solo con la quadratura delle vignette, nel mio caso ha un’altezza di 32,5 centimetri e una larghezza di 25 centimetri.
Quindi lavori sul grande che poi viene rimpicciolito. Anche perché rimpicciolendo le imperfezioni vengono ridotte. Corretto?
Sì e no. Nel senso che è vero che è corretto, ma sempre tornando al discorso iniziale della narrazione, se tu non sei in grado di percepire quanto verrà ridotto, come si vedrà quello che stai facendo una volta ridotto, corri il rischio che quello che fai quando si vedrà stampato sarà estremamente confuso. Perché magari sarà troppo pieno di elementi. Perché il segno sarà un segno che risulterà troppo grasso quando viene stampato. Quindi un’altra cosa di cui bisogna tener conto è che tutto quello che fai in stampa avrà poi una certa dimensione. Questo sia se lavori in piccolo, sia se lavori in grande. L’ideale, magari sarebbe lavorare in formato di stampa, però lavorare in formato stampa quando si richiedono determinate cose diventa abbastanza problematico. Questa dinamica da tenere sott’occhio va fatta sia che un disegnatore lavori in analogico come me, sia che lavori in digitale. Bisogna sempre tenere conto di quello che sarà il risultato finale.
Che differenza c’è tra fare le matite e fare i disegni? È la stessa cosa?
Dipende da che cosa intendi per disegni. Se per disegni intendi il lavoro completo, quindi inchiostrato, la differenza c’è. Il matitista realizza “solo” il lavoro, solo tra virgolette perché in realtà spesso è i tre quarti del lavoro. Poi non sempre è così. Perché per esempio con uno come Luca Vannini nel numero uno di Julia, i tre quarti del lavoro è la china. Molto dipende da soggetto a soggetto. Però quello che fa la matita si limita ai disegni a matita. Poi ci sarà un altro disegnatore che lo passerà a china. Su Julia ho esordito così. Per sette anni ho fatto solo le matite degli albi che disegnavo. Poi un altro disegnatore, un altro collega, ripassava il mio lavoro a matita, lo ripassava a china.
Tu adesso fai matite e china?
Sì.
Che cosa fa Luigi Pittaluga quando non disegna?
Bella domanda. Deve vedere gente, però non in città. Non mi piace più di tanto stare in città. Adoro stare in mezzo alla natura, andare in montagna o per boschi. Mi piace tantissimo quando è stagione andare al mare. Perché per me il mare è una vera e propria metafora di vita. Inoltre la vita terrestre è nata dal mare. Nonostante abbia una vita solitaria non sono un solitario.
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