Il professore

giovani in città
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A me il professore, come lo chiamavano tutti nella strada, non era mai andato a genio. Troppo preciso, troppo educato, troppo a posto insomma. Uno di quelli che quando passava, lo salutavano tutti. Certo c’era anche quella storia del fratello che era famoso in tutto il mondo e che tutti veneravano come una gloria nazionale da rispettare. E lui, il fratello, il professore che cazzo voleva? Pensava che essere il fratello di uno famoso gli desse qualche diritto?

Ho qualche precedente penale per cose di droga e qualche furto e, ancora oggi me la cavo con lavoretti rimediati qua e là nel giro. Ma saranno cazzi miei come passo il tempo?

Il gruppo è sempre lo stesso, quello degli amici. Lo stesso bar, la stessa strada. Non proprio ogni giorno lì per lo spritz, ma almeno il venerdì e il sabato sono sacri. A volte esageriamo; beviamo qualche bicchiere di troppo e anche qualche bella canna. Stiamo lì senza dare fastidio a nessuno. Eppure spesso ci rompono i coglioni questi cazzo di residenti. Dicono che blocchiamo la strada, sporchiamo tutto e urliamo fino a tarda notte. Bei cazzoni questi qua. E che dovremmo fare, chiuderci in casa con la tele come fanno loro? Devono per forza prendere la macchina tutti i giorni? Ma andassero a farsi fottere. Un periodo hanno fatto anche un coso lì, un comitato civico e non vi dico le rotture di palle: carabinieri, polizia, vigili.

Per me, con la scusa che sono pregiudicato, un continuo controllo dei documenti e giù domande sul lavoro e gli amici. Saranno cazzi miei? Al maresciallo Belsito non potevo rispondere così, con una scusa mi avrebbero portato in un vicolo e me la sarei vista brutta. Ma questo cazzo di professore, così preciso, lo avevano chiamato anche presidente quelli del comitato.

Voi lo sapete che cosa vuol dire restituire una bella sommetta ai calabresi? Vi è mai capitato di avere debiti per la droga? A me sì, e quella sera già mi vedevo in un fosso o in un pantano e quel coglione di professore che ti fa? Stavo lì, con gli altri a bere per strada, e lui si mette a strombazzare con il clacson della sua merdosa automobile perché deve rientrare a casa! Quest’uomo non ha davvero capito niente di come va la vita. Gli iniziamo a urlare fiumi di parolacce e lui niente, tranquillo chiede di passare.

Il perfettino non si mette a litigare con noi. Inizio a sbattere sul suo vetro e all’improvviso ho capito che lui non aveva paura: aveva pena per me, aveva quasi pietà negli occhi. Pena e pietà? Di noi? Di me? Ho sfondato il vetro con un calcio. Le schegge gli sono arrivate sul viso. Ho infilato la mano e gli ho rotto gli occhiali e poi ho colpito, colpito, colpito, mentre gli altri applaudivano e gridavano. Ho smesso perché ero stanco e lui era un mucchio di vestiti, informe e inerme. È morto dopo qualche tempo passato in ospedale. Adesso non romperà più i coglioni a nessuno, il perfettino.

Il racconto è tratto da
Antonio Fresa
Delitti esemplari nel Bel Paese
L’Erudita, 2016
pagg. 124
€ 13,00

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