
Una volta era molto più complicato. Non parlo degli anni settanta e delle rockstars irrangiugibili, parlo di quando la musica si avvicinò al pubblico attraverso il punk e la new wave, musica che veniva dal basso, se non dagli stessi fans che mettevano in piedi band (primo comandamento del punk: questo è un accordo, qui c'è il secondo e questo è il terzo, ora vai e forma un gruppo), musica che viveva del rapporto viscerale tra i musicisti ed il loro pubblico. Quindi, solitamente, sul retro dei dischi, c'erano gli indirizzi dei fan club, molto spesso presso le stesse etichette discografiche indipendenti, a cui richiedere materiale pubblicitario, informazioni, scrivere pensieri, poesie, sensazioni, qualsiasi cosa… era richiesta una busta già affrancata per la risposta e quando arrivava ti sentivi un privilegiato con un filo diretto con l'artista.Ti arrivava di tutto, spillette, fotografie, appunti con testi e disegni, flyers di dischi e concerti, una miniera d'oro. Julian Cope, il grande druido psichedelico, allegava sempre una cartolina con l'ultimo sito megalitico che aveva scoperto ed esplorato. Poi, magari, ai concerti ti capitava pure di conoscerli, non se la tiravano per niente, erano ragazzi come te, con gli stessi problemi, solo in un altro angolo dell'Italia e del mondo…e si passava la notte del dopo concerto, al bar a bere una birra, a parlare o a sparlare di quell'altro gruppo, fino ad essere sbattuti fuori dai locali. Non c'erano telefonini per fare foto e ci si lasciava sapendo che non ci si sarebbe più incontrati, ma grati gli uni agli altri per lo scambio avvenuto.
Ora invece, sono tutti su Facebook, i musicisti in carne ed ossa virtuali ed i loro fans. Certo, le rockstars irraggiungibili rimangono tali e se hanno una pagina propria, la fanno gestire agli addetti stampa, ma vi assicuro che per una settimana sono stato “amico” del vero David Gilmour, gli ho scritto e mi ha risposto, prima di rendersi conto che non avrebbe mai potuto gestire una massa così enorme di amore. Chi avrebbe mai pensato di poter un giorno parlare con Roy Harper, menestrello inglese degli anni settanta, voce di Have a cigar dei Pink Floyd, di fronte al quale addirittura i Led Zeppelin chiedono di levarsi il cappello, di scambiare qualche impressione con James Williamson degli Stooges, o ancora di ringraziare Manuel Gottsching degli Ash Ra Temple, di poter ricordare con Chris Frantz il concerto dei Talking Heads al Palalido di Milano nel dicembre del 1980, o di assistere ad un dialogo sulla pittura tra Elton John e Iggy Pop. E magari capita anche che, non si sa per quali via traverse (forse i sei gradi di separazione?) ti chieda l'amicizia Blondie…
Questa democrazia diretta del web si è estesa a tutti i campi ed è la vera rivoluzione di questi anni. Che controllo possono avere più le case discografiche o gli addetti ai lavori, se i musicisti stessi decidono di stabilire e mantenere i rapporti con il proprio pubblico senza mediazioni e quindi optare per pubblicare anteprime di dischi a venire, pianificare tour, postare emozioni e sensazioni a caldo di concerti, raccogliere suggestioni fotografiche da chi si è fatto molti chilometri per andare ad ascoltarli, addirittura ricostruirsi in base alle risposte entusiastiche di chi li segue.
Artisti che si credevano ormai sepolti dalle pieghe del tempo, scoprono che in realtà quella loro canzone o quel loro disco ha significato tanto per tante persone là fuori nel mondo e sono disponibili a raccontarsi, a spiegare, a chiedere.
Che fine hanno fatto il grande Shawn Phillips, Leigh Stephens dei Blue Cheer o Simon House degli High Tide? Nessuna rivista anche specializzata te lo dirà più, ma sono ancora qui, suonano magari in un pub inglese o in un bar americano per trenta persone, hanno vite stropicciate o splendidi figli ormai grandi, ma continuano a fare quello che hanno sempre fatto: regalarci tre minuti di splendida follia.
Mario Barricella
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