
La Somalia ha ancora bisogno di aiuti. La più devastante carestia degli ultimi decenni sembra essersi attenuata. La pioggia sta cadendo, a tratti copiosa, in alcune aree dopo una lunga siccità e questo sicuramente attenua gli effetti disastrosi sulle popolazioni, sugli animali ed i terreni.
Le organizzazioni internazionali hanno potuto consegnare più cibo e medicine ed in genere assistere meglio i somali perché la ragnatela dei vari poteri e milizie locali, Al-Shabaab in testa, ostacola quotidianamente gli aiuti con cavilli burocratici, ma soprattutto estorsioni, blocchi, rapine.
Secondo il quotidiano inglese The Guardian Al-Shabaab avrebbe revocato definitivamente il permesso di lavorare (accusati in genere di “attività illegali” o di attività contrarie alla “moralità” islamica) all’Unicef e all’OMS e non importa appunto cosa questo possa significare nel mezzo di una crisi di così vaste proporzioni.
Nel 2010 aveva abbandonato il campo il World Food Program non potendo svolgere le attività in sicurezza e, come per altre organizzazioni umanitarie, per evitare che tutto vada ad sostenere le organizzazioni armate.
Pur avendo abbandonato Mogadiscio i miliziani di Al-Shabaab controllano o destabilizzano vaste aree del centro e del sud del paese. Uno stato “fallito” che non riesce a gestire l’amministrazione ordinaria della nazione non può assicurare sicurezza a chi deve soccorrere alcuni milioni di persone.
E si parla di milioni di persone che sono state e sono coinvolte dalla carestia.
<<La situazione umanitaria in Somalia ha raggiunto negli ultimi mesi, per gravità ed estensione, dei livelli senza precedenti e si stima che in questo momento quasi la metà della popolazione (circa 3,8 milioni di persone) somala sia in pericolo di vita per le cause correlate alla prolungata siccità>> [1].
Il Governo di Transizione Federale sostenuto dagli occidentali e protetto dai soldati dell’Unione africana è in grado di controllare solo alcuni quartieri di Mogadiscio che comunque continua ad essere sconvolta da attentati. L’ultimo in ordine di tempo è quello di domenica sera nella sala d’attesa dell’ospedale di Banadir, dove almeno sette persone sono rimaste ferite.
Molti di questi attentati, anche suicida, sono opera delle milizie islamiche di Al-Shabaab che contrastano fin dalla nascita del governo di transizione che si sono ribellati della resistenza armata contro l’invasione etiopica del 2007.
La tecnica stragista è stata apertamente dichiarata dopo il ritiro da Mogadiscio delle milizie che ad ottobre diedero prova di poter penetrare e impunemente nel cuore della città (compound amministrativo del Chilometro Quattro) e provocare diverse decine di vittime tra cui studenti mentre erano in attesa presso il ministero dell’Istruzione.
Come però ha scritto Nicola Pedde l’organizzazione degli islamici scricchiola da quando nei primi giorni dello scorso agosto <<l’Al-Shabaab dovette lasciare la città perché effettivamente in difficoltà dopo la morte di alcuni importanti uomini del vertice organizzativo, ed anche in conseguenza di una sempre maggiore ostilità verso il gruppo da parte della popolazione civile, che sembra ormai odiare i radicali islamici su vasta scala>> [2]. L’uscita dalla capitale ha anche comportato la perdita di importanti introiti provenienti dalle rapine, dal taglieggiamento degli aiuti umanitari e di quelle attività commerciali rimaste in piedi.
In un rapporto preparato dal gruppo Onu di monitoraggio su Somalia e Eritrea si legge che <<impongono tasse negli aeroporti, porti e ai checkpoint, sui prodotti interni, impongono contributi per la jihad>>. Il “fatturato” totale si aggira tra i 70 e 100 milioni di dollari l’anno [3].
Come vedremo l’indebolimento di Al-Shabaab è dovuto anche all’attacco dell’esercito kenyota che nella parte meridionale del paese sta mettendo a dura prova le roccaforti dell’organizzazione.
Va detto che si allargano le divisioni interne tra i gruppi dirigenti soprattutto sulla strategia (per esempio rimanere a ridosso di Mogadiscio o ripartire dalle zone meglio controllate) da adottare per rovesciare il governo di transizione del presidente Sharif Sheikg Ahmed e su come combattere le truppe dell’Unione africana (Amisom) composte da circa 9.000 ugandesi e burundesi.
In un paese dove un governo corrotto e incapace di qualsiasi provvedimento e dove esistono, proprio per il fallimento dello stato, decine di piccoli stati tribali e con proprie milizie è facile che gli interventi dall’esterno siano, per vari interessi, all’ordine del giorno lasciando in eterno conflitto una popolazione che non trova pace e, come abbiamo visto, non trova cibo acqua e medicine.
Il 16 ottobre l’esercito kenyota, nell’ambito dell’Operazione “Linda Nchi” (protezione della nazione), ha invaso la parte meridionale della Somalia con l’obiettivo, secondo le posizioni del governo di Nairobi, di stabilizzare un confine che crea non pochi problemi per le continue scorribande, sequestri inclusi, delle milizie islamiche e di altre bande armate oltre confine. E così il quadro somalo si è ulteriormente complicato per nuovi attori. Non solo il Kenya ma anche, nonostante le smentite, gli USA alleati e finanziatori e la Francia per interessi energetici.
Ad oggi l’avanzata dell’esercito e di quelle che sembrano poter sbaragliare la resistenza degli islamici soprattutto dopo aver preso il controllo del porto di Kismayo, uno snodo vitale per il finanziamento dei combattenti che controllano la Somalia centro-meridionale [4].
Questa invasione è probabile che diventi un’aggravante dell’instabilità cronica del Corno d’Africa, senza contare che molti civili inevitabilmente saranno uccisi. L’intervento militare è stato appoggiato completamente dalla Francia che con il pretesto della cacciata degli islamici sta difendendo e allargando i suoi interessi nell’area.
Si tratta degli enormi investimenti nell’arcipelago di Lamu dove la Total ha acquisito un pacchetto di azioni in cinque blocchi di esplorazione offshore nel bacino di Lamu. Non solo ma <<è da più di un anno che la diplomazia francese lavora a fari spenti per incrementare il livello di sicurezza nella regione del confine somalo-keniano, soprattutto per consentire a Nairobi di ampliare le sue acque territoriali a discapito di Mogadiscio>> [5].
Nonostante le smentite ufficiali gli USA sembrano partecipare direttamente alla guerra stante le dichiarazioni del portavoce militare del Kenya che ha riferito al Daily Nation di attacchi aerei americani.
Si riferisce anche dell’uccisione capo spirituale della milizia islamista, Sheikh Hassan Dahir Aweys, e di altri due leader.
La cacciata di Al-Shabaab potrebbe portare stabilità in Somalia secondo il comunicato congiunto firmato dai presidenti del Kenya Mwai Kibaki, dell’Uganda Yoweri Museveni e del Gft somalo Sheikh Sharif Ahmed che sperano anche in una maggiore presenza internazionale.
Ma l’esondazione della guerra con altri lutti e devastazioni non è la soluzione per un paese distrutto e dilaniato da lotte fratricide come la Somalia.
Pasquale Esposito
[1] Vincenzo Gallo, “Il dramma umanitario in Somalia: siccità, carestia e conflitto”, www.misna.org, 30 agosto 2011.
[2] Nicola Pedde, “Somalia, la rinascita o il crepuscolo di Al Shabaab?”, limes, 7 ottobre 2011.
[3] “Gli estremisti islamici si ritirano da Mogadiscio. Somalia devastata da siccità e carestia”, www.ilsole24ore.com, 6 agosto 2011.
[4] “Esplosione a Mogdiscio, Kismayo sotto controllo truppe keniane”, www.misna.org, 25 novembre 2011
[5] Matteo Guglielmo, “Gli interessi nascosti di Kenya e Francia in Somalia”, Limes, 10 novembre 2011. L’articolo è molto interessante per l’analisi approfondita delle problematiche connesse all’invasione.
Un altro approfondito articolo sull’intervento del Kenya e soprattutto una disamina dei conflitti e delle presenze claniche nelle regioni di confine è Matteo Guglielmo, “Perchè il Kenya interviene in Somalia”, Limes.
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