Interpretazione di un testo letterario: intervista ad Emanuele Trevi

copertina di Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi

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è un noto e letterario italiano, tra i più bravi ed interessanti attualmente in circolazione: svolge con successo, spesso lasciando confluire l'una nell'altra, tanto la sua attività di critico, quanto quella di scrittore di romanzi: quest'ultima in particolare lo vede esordire nel 2003 con I Cani del Nulla. Una Storia Vera, cui seguono,  Senza Verso. Un'estate a Roma, L'onda del Porto. Un Sogno fatto in Asia e Il Libro della Gioia Perpetua; ha curato diversi testi classici ed antologie scolastiche, partecipato a svariate iniziative culturali (facendo parte anche della giuria di premi letterari), i suoi articoli sono apparsi sui più importanti quotidiani nazionali quali La Stampa, Il Manifesto e Repubblica. Il primo marzo è uscito il suo ultimo , , edito da Ponte alle Grazie, ove si narra di un giovane scrittore che proprio agli inizi degli anni novanta si trova a lavorare presso un archivio molto particolare, il Fondo . Attraverso l'incontro e la conoscenza con Laura Betti – fondatrice e curatrice dello stesso Fondo, nonché una delle persone più care al Poeta, tanto sul piano umano, quanto su quello artistico – il protagonista avrà la possibilità di portare alla luce una storia nascosta nelle pagine di , il romanzo incompiuto di Pasolini pubblicato postumo, nel 1992, di cui qui ci verrà presentata un' inedita ed illuminante.
Ed è proprio nella sua autorevole veste di critico letterario, quindi di colui che interpreta e tenta di trovare quella chiave di lettura più propizia a restituire al testo il suo, o i suoi, significati profondi, che Mentinfuga è lieta di rivolgergli qualche domanda.

Sappiamo che un può essere analizzato ed interpretato prediligendo un metodo critico piuttosto che un altro; Lei ne adotta uno in particolare, o magari sceglie quello che ritiene più opportuno di volta in volta anche in base alle informazioni già in Suo possesso in merito all'autore ed alle sue tematiche?

E. Trevi – Cerco di non isolare la meditazione su una cosa bella (un libro, un quadro, una musica) dal flusso dell'esistenza, dalle circostanze che mi hanno portato a conoscerla e ad apprezzarla. Da questo punto di vista, è il più grande dei maestri, perché nella sua opera la circostanza (il momento, lo stato d'animo particolare, l'occasione, il caso stesso) hanno addirittura più importanza della cosa in sé. Senza essere Proust, è facile verificare nella vita di ognuno che certe opere restano completamente mute la prima volta che ne facciamo esperienza, e poi, rilette o riviste per caso, ci rivelano interi mondi. Per me, quest'attenzione alla circostanza è diventata fondamentale, nel senso che ha trasformato il mio lavoro di critico in qualcosa che ingloba tutti i generi, dalla narrativa d'invenzione al libro di viaggio, dal romanzo alla poesia. Questo non vuol dire che certi saggi che scrivo non li faccio in maniera tradizionale – dipende dalle occasioni, dalla committenza. Ma i libri che scrivo, anche se potrebbero essere definiti dei “romanzi“, io li concepisco sempre come un saggio critico, qualcosa cioè che interpreta un oggetto precedente, invece che inventarlo di sana pianta.

Quanto del proprio vissuto e delle proprie esperienze – esperienze che in qualche maniera contribuiscono a fondare la visione esistenziale e la percezione della realtà, quale essa sia, quindi compresa la realtà del testo che ci si predispone ad affrontare –  secondo Lei influiscono sull'interpretazione ed analisi del testo stesso?

E. Trevi – Necessariamente la risposta alla prima domanda implicava di anticipare il contenuto della seconda… ribadisco allora che per me un testo “oggettivo” non esiste mai, è solo un insieme di piccoli segni muti e inerti su dei fogli di carta, tutto prende vita quando si legge, quindi è assurda un'analisi fredda, distaccata, che rescinde il dalle emozioni, dal fatto di essere vivi in un dato tempo, in un dato spazio, con un destino unico e irripetibile. Lo dirò con ancora maggiore radicalità: non sono io che devo difendere il mio metodo, che mi sembra fondato su verità addirittura ovvie, sono i sostenitori della “scienza letteraria” che devono dimostrare che esiste qualcosa che non sia l'atto di lettura del singolo individuo.

Interpretare un testo significa anche sforzarsi di capire cosa l'autore intendesse realmente dire: secondo Lei è possibile invece validificare una lettura che, pur sostenibile e dimostrabile all'interno del testo, rischi di mancare completamente le intenzioni dell'autore?

E. Trevi – Ma come potrebbe, questo autore, conoscere lui stesso ciò che intendeva “realmente” dire? Nessuno ha questo controllo sulle proprie intenzioni. L'umanità vive all'ombra dell'inconscio ben prima di Freud. Insomma: una lettura non ricava la sua validità dall'essere conforme alla cosiddetta intenzione dell'autore, ma dalla sua efficacia, dal suo soddisfare qualche bisogno. Quando i commentatori medievali (Dante incluso) leggono l'Eneide come un'allegoria della vita del perfetto cristiano, commettono un grave errore storico, ma si rifanno a un modello di interpretazione che per secoli ha prodotto una vera memoria storica, una cultura.

Parlando di Letteratura contemporanea, sappiamo quanto essa contribuisca, non solo a riportare gli aspetti più caratteristici dell'epoca in cui si sta vivendo, ma anche, interpretandone i segni al pari di un sintomo, a comprenderla; in questo senso, e poiché interpretare suddetti segni è compito del critico,  è giusto affermare che su di lui vada a gravare la responsabilità di evidenziare eventuali malanni e/o distorsioni di un'epoca?

E. Trevi – Non saprei, io mi muovo molto fuori dalle categorie della politica, dall'etica della responsabilità. Sono cose che rispetto ma non so fare mie fino in fondo. Mi spiego meglio: i “sintomi” del proprio tempo più interessanti, all'interno di un'opera, sono quelli involontari, che spesso trascendono, e addirittura smentiscono, le idee esplicite dell'autore. E' un'esperienza che mi capita di fare scrivendo molte recensioni, dove sperimento un certo grado costante di divergenza tra intenzioni e significati realmente espressi.

Le è mai capitato di trovarsi di fronte ad un'opera formalmente valida e coerente ma di cui non Le è stato possibile condividere il contenuto? In questo senso è giusto parlare di una separazione tra etica ed estetica che il critico crede opportuno evidenziare?

Beh, faccio un esempio classico, che è quello di Céline, perché anch'io, come molti che fanno il mio mestiere, mi sono trovato nel 2011 a scrivere una commemorazione per i cinquant'anni dalla morte. Ho scelto di parlare dell'ultimo libro, Rigodon, e delle interviste rilasciate a un amico, un certo Robert Poulet, anche lui fascista, anche lui macchiato dalla collaborazione con il regime filo-nazista di Vichy. Ebbene sì, le idee di Céline sono infami, addirittura repellenti se estratte dal quel contesto che è la sua scrittura, che a mio parere è la più grande del suo secolo. E allora? Si può risolvere il dilemma con qualche forma di normalizzazione? Non credo. Credo al contrario che dove l'infamia e la grandezza si incontrano, là c'è un uomo vero, un'autenticità da interrogare. E lasciatemi aggiungere che, in questo mondo di borghesi dove tutti ripetono le stesse cose democratiche e illuminate, io vedo in Céline una specie di santo, se il santo è, in primo luogo, colui che pecca prima e peggio degli altri.

Restando ai tempi presenti, dopo l'avvento di internet si è visto il proliferare in rete di siti, forum e blog a tema letterario in cui si recensiscono romanzi, poesie, saggi e testi vari. Secondo Lei, per il lettore che cerca di orientarsi e di avere una linea-guida di interpretazione relativa ad un'opera, può essere utile tutto ciò o non corre piuttosto il rischio di perdersi e di perdere il sostegno di una critica autorevole?

E. Trevi – Sì, l' è molto importante, non si può aggirare il problema, sta tutto lì, e non nel mezzo; la pagina del “Corriere della Sera” e il blog di per sé sono identiche, ma l'autorevolezza è la base di tutto. Ma quella la decidono la vita, l'opera, la capacità di solitudine dei singoli individui, la misura di quello che sono disposti a sacrificare  in nome del risultato che vogliono ottenere. Questa è l'unica strada, e non bisogna spaventarsi del fatto che oggi trionfano le finte autorevolezze della tv, del pettegolezzo, della fama usurpata. Perché è vero, un articolo serio fa vendere immensamente meno di un passaggio in tv, ma bisogna anche interrogarsi sulla durata delle cose, la letteratura e in generale l'arte sono fatte di durata, ancora oggi un ritratto di Tintoretto o una commedia di Shakespeare sono in grado di produrre dei destini. Quando ero giovane, ancora era un fatto naturale puntare alla durata. Oggi che un libro uscito sei mesi fa è “vecchio“, sembra una scommessa pascaliana. Ma bisogna farla, insegnare ai giovani a farla, fregarsene del resto.

Ringraziamo Emanuele Trevi per la sua disponibilità e speriamo di poterlo avere ancora come ospite di Mentinfuga, questa volta però nell'altra sua veste, quella di scrittore di romanzi, magari facendoci raccontare proprio del suo ultimo lavoro, Qualcosa di scritto.

Rita Ciatti

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