
Professore ordinario di Letteratura Inglese presso l'Università per stranieri di Perugia, con un dottorato di ricerca in inglese conferito dall'University College di Dublino, Enrico

Terrinoni è anche un profondo conoscitore della letteratura irlandese e studioso dell'opera di James Joyce. Oltre alle numerose pubblicazioni di studi e approfondimenti, è autore del saggio “James Joyce e la fine del romanzo” (Carocci, 2015), della traduzione dell'Ulisse per i tipi di Newton & Compton e della traduzione dell'ultima parte ancora non tradotta del Finnegans Wake, in tandem con Fabio Pedone.
Ma i progetti di scrittura e di traduzione non finiscono qui: in programma un saggio sulla traduzione “Oltre abita il silenzio. Tradurre nell'ombra” e una traduzione delle favole di Oscar Wilde per Feltrinelli.
Ci racconta con generosità della sua esperienza, del suo lavoro: letteratura, romanzi e traduzioni.
Parlando di traduzione di classici, se dovesse scrivere la voce “Traduzione” di un nuovo dizionario, cosa scriverebbe?
Come sinonimo metaforico figurato spiegherei che il traduttore è un traghettatore, una sorta di Caronte al contrario, uno che riporta in vita i morti. Un libro non letto è un libro che non esiste, il libro esiste in base alle sue funzioni, prende vita quando viene letto. La traduzione nasce da questo, rende disponibili dei libri che altrimenti non verrebbero letti da un certo tipo di pubblico. Credo che abbia a che fare anche con la etimologia della parola, perché “Tradurre” significa principalmente “trasportare”, portare al di là. C'è da capire dove sta questo al di là e credo si tratti di un al di là del silenzio; ritengo che tradurre sia dar voce ad un testo silenziato. Questa definizione, che magari farà arrabbiare alcuni, propone l'idea che il traduttore sia sempre al servizio del testo da tradurre tentando di non esser mai lui il vero protagonista. Eppure servire significa anche esser necessario. Il traduttore nel servire, serve; è un “supporter of the cause”, colui che difende la causa, che fa da medium al testo senza sostituirsi all'autore; indubbiamente anche il traduttore è una sorta di autore perché leggere un testo tradotto vuol dire leggere le parole del traduttore; credo però che sia importante capire in cosa consista la proprietà delle parole: non sono del traduttore e forse neppure dell'autore, credo che alla fin fine le parole siano principalmente del lettore.
Per tradurre autori classici come Joyce o Tolstoj quanto profondamente si deve conoscere la lingua e l'autore stesso?
Più l'autore è complesso più i testi e le parole, le immagini, i concetti sono complessi e più c'è bisogno di interpreti-traduttori, per interprete intendo colui che dà una spiegazione del testo; tradurre autori come Joyce o Tolstoj senza approfondimento è un grande rischio, perché la grande letteratura gioca sull'ambiguità, gioca sul fatto che un testo può significare molte cose allo stesso tempo e quindi può essere letto a tanti livelli; per un testo così stratificato c'è bisogno di un interprete che conosca non solo l'autore, ma anche la testualità in generale di quel periodo del testo. Generalmente questo succede solo con i classici, quando una grande casa editrice decide di tradurre un classico generalmente lo affida ad un esperto dell'autore: un'arma a doppio taglio perché quell'esperto potrebbe anche non essere un bravo traduttore. Ci sarebbe bisogno di una mediazione tra le due figure e se si potesse scegliere si dovrebbe affidare la traduzione ad una equipe: un traduttore affiancato da esperti: un po' quello che facciamo noi per Joyce, con Carlo Bigazzi per Ulisse anni fa, e ora con Fabio Pedone per Finnegans Wake. In quest'ultimo caso siamo in contatto costante con tantissimi altri esperti dell'opera in giro per il mondo. Il traduttore che vive tra le sue quattro mura per portare avanti la sua battaglia eroica e narcisista è una figura del passato: oggi il traduttore deve essere al servizio del testo, dell'autore e del lettore. Il che non vuol dire oscurarsi. Vuol dire sentire la responsabilità etica del tradurre, usare parole proprie per rendere quelle altrui, e sapere che resteranno tue solo per un breve tratto.
Traduzione in equipe, come scrivere un romanzo a quattro mani?
In generale, nelle cose della vita è meglio fare le cose in due che farle da soli. Soprattutto nel campo dell'interpretazione, perché in due si possono scoprire cose che da soli non si sono viste; è vero infatti che, per capire bene quella che chiamano la voce di un autore, è sempre meglio anche leggere libri di critica su quell'autore piuttosto, e non affidarsi solo al libro che si sta traducendo. Nel corso dei Reading Groups che abbiamo aperto a Perugia, durante i quali leggevamo alcune pagine dell'Ulisse con un pubblico di non esperti, abbiamo scoperto tante cose nuove suggerite da persone che lo leggevano magari per la prima volta e se n'erano appassionate; e sto parlando di un libro che studio da oltre 20 anni. La traduzione collaborativa è molto fruttuosa anche per “Finnegans Wake”, lo dimostrano con una serie di seminari di questo tipo organizzati allo IULM di Milano l'anno passato. Ovunque andiamo usiamo questo metodo: mettiamo la nostra interpretazione al reagente di quella degli altri. Ci mettiamo in gioco, perché la nostra traduzione è una e non è definitiva; sicuramente una traduzione attenta, ma non definitiva, come nessuna traduzione, e nessuna lettura, può mai essere. Spesso escono fuori delle soluzioni interpretative molto interessanti. Con l'ultimo volume che stiamo traducendo e che uscirà a maggio del 2019 abbiamo proposto ad esempio in un settimanale, l'anno scorso, due o tre righe del testo, spiegato in circa 3000 battute e invitandoli a dare le loro soluzioni traduttive, e la cosa interessante era che tutte quelle che ricevevamo erano totalmente diverse le une dalle altre. Nel momento in cui si dovevano inventare delle parole per tradurre quelle del testo, i traduttori amatoriali ne hanno tirate fuori alcune incredibilmente creative. Non le abbiamo usate perché l'esperimento era sulla base di frasi di testo di uno dei volumi già tradotti, mentre nel caso dei volumi tradotti da noi, magari un domani utilizzaremo alcune delle soluzioni uscite fuori dai reading, dandone ovviamente credito agli autori.
Vittorio Coletti in Romanzo Mondo scrive “la traduzione mette il libro in un paese terzo, senza personalità linguistica propria, partecipe di più anime e in fondo senza nessuna.”. Condivide questa visione della traduzione?
È una posizione per certi versi simile a quella di Walter Benjamin che pensava ad una sorta di terza lingua ovvero quella prodotta dal traduttore; si tratta di una posizione proto-mistica che idealizza la possibilità che si possa tornare ad una lingua condivisa. La condivido da un punto di vista spirituale; meno da quello pratico: può valere per i testi visionari: “Finnegans Wake” per esempio è scritto in una lingua inventata e che deve essere quindi tradotto in una lingua inventata. Ma nel caso di Dickens e del romanzo realista, la traduzione deve adattarsi al contesto di arrivo tanto quanto a quello di partenza. Il traduttore quando produce un testo che è un'ombra dell'originale, una sua eco diceva Benjamin, il più possibile leale nei confronti dell'originale, ma pur sempre un'ombra. A questo proposito, sto appunto scrivendo un libro dal titolo “Oltre abita il silenzio. Tradurre nell'ombra”, che riassume un po' questi concetti. Esce tra qualche mese.
V.Ch.
segue la seconda parte: del tradurre Joyce
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