
In viaggio a Napoli ho colto l'occasione per pranzare con Gabriele Russo che mi ha raccontato della sua idea di arte e del teatro Bellini che dirige insieme ai fratelli Daniele e Roberta. È stato un viaggio nel viaggio ascoltare il suo percorso artistico e l'evoluzione di un teatro parte della storia della città e non solo. La sera stessa, ospite di Gabriele, ho assistito allo spettacolo Lili Elbe Show della compagnia Riva & Repele che mi ha dato la conferma della qualità delle scelte artistiche di Gabriele e del suo team.
Com'è la vita di Gabriele Russo al Bellini di Napoli?
La vita quotidiana in una struttura del genere, anche dal punto di vista dell'esperienza che accumuli è veramente travolgente. Perché c'è programmazione tutti i giorni, si alternano produzioni e ospitalità con cadenza settimanale. Per la danza, proprio per cercare di ampliare sempre le collaborazioni e responsabilizzare le persone, prepariamo la stagione con due curatrici. Lo dico sempre, non spingerò a che i miei figli seguano la strada del teatro, assolutamente. Faranno quello che vogliono. Però vivere quell'atmosfera è una risorsa enorme per loro. Il teatro è formativo in questo senso, magari lo recepissero anche le istituzioni. Lo dico senza retorica proprio come atto concreto. Non è che sto lì a dire a mia figlia chissà che, semplicemente lei vive il teatro, lo attraversa, e comunque vede delle persone in generale più libere della norma rispetto a un mondo “borghese” che è veramente molto più dogmatico. Poi chiaramente sto generalizzando. Nel teatro però vedo la possibilità della fantasia, della libertà. Poi la svilupperanno come vogliono.
Oggi accanto a delle proposte teatrali superbe ci sono anche tante cose non necessarie, inutili, senza qualità.
Stai parlando del contenuto dello spettacolo?

Certo.
Quello sicuramente. Io sto parlando in questo caso del bambino che vive un'atmosfera. Tralasciando quello che è un passaggio già successive, quello del mero spettatore che comincia a creare un suo gusto. Anche vedere un backstage, una prova, il buio della sala, quel lato magico è un momento molto formativo. Poi è un altro discorso il passaggio al professionismo, a quello che è necessario, a tutte quelle dinamiche che invece ci intristiscono in modo violento rispetto alla purezza del settore. Però quella parte magica la trovo molto suggestiva. Questo lo vedo anche nella formazione.
Noi abbiamo un'accademia da trent'anni anni, non finanziata e a titolo totalmente gratuito per gli allievi. A volte non ce la facciamo più poi ogni volta decidiamo di portarla avanti. È Triennale, a frequenza quotidiana dalle dieci alle diciotto. Quindi è come un'università, non è la scuola con un breve corso. È un'accademia come quella di Genova, come la Silvio D'Amico. Noi siamo la Bellini Teatro Factory, prima si chiamava Accademia d'Arte Drammatica, la direzione ora è di Mimmo Borrelli, uno degli artisti e drammaturghi più importanti in Italia. Mimmo Borrelli ha vinto il premio Ubu per La Cupa. È autore napoletano di poesie, utilizza il linguaggio dell'entroterra, della zona flegrea di Napoli. È una lingua che anche noi napoletani non capiamo, ma di una qualità assoluta.
Mi ricordo quando Sophia Loren fu intervistata dalla televisione americana. Alla domanda se fosse italiana rispose. “No, sono napoletana”. Essere napoletano influisce sul tuo modo di lavorare, sulla tua idea di teatro, su ciò che sei?
Questa è una domanda difficile. Io credo che ci influenzi, che Napoli mi influenzi in un modo inconsapevole. Devo dire la verità, io non sono un fanatico, non sono un campanilista e si vede nella programmazione che facciamo. È fatta a Napoli, funziona e resiste a Napoli. Secondo me è un mezzo miracolo. Ma potrebbe essere la stessa programmazione che faremmo a Milano. Cioè non c'è niente che va nella direzione della “napoletanità”. Con questo non perché io disprezzi Napoli, anzi forse è il mio modo di apprezzarla. Purtroppo l'hanno talmente svilita con il nazionalpopolare che quindi in qualche modo un po' lo rifiuto. Per me è più importante iscrivere la napoletanità e anche la cultura napoletana dentro una normalità. Perché qui siamo sempre per l'eccezionalità. Io a volte ho problemi anche su tutte le produzioni cinematografiche che si fanno qui. Perché mi sembra sempre che vadano a scavare dentro questa zona “primitiva” del napoletano. Che poi è una dimensione che serve alla nazione. Serve raccontaci così. Se io dico che sono napoletano sembra quasi strano. È sempre un po' come se venisse sempre preso l'aspetto folkloristico. La Nazione ha bisogno delle scimmie, di dire “Mamma mia ma quanto sono simpatici, ma quanta creatività! Ma quanto sono bravi!” Io sono per la normalità. L'Italia usa sempre, e lo fanno anche i napoletani stessi, questa connotazione che a me fa orrore. Io invece vedo la napoletanità come grande cultura, grande linguaggio, grande cosa che può andare insieme a una drammaturgia tedesca, a quella e ad altro, ma non essere mandati in pasto così come degli strani animali.
Anche la disabilità viene spesso raccontata in modo folcloristico, stereotipato. È anche il modo in cui viene raccontata Scampia dove siamo stati per il carnevale.
C'è stato un carnevale alla Sanità con tutti i bambini del quartiere. Il quartiere Sanità sta crescendo molto. Attenzione io non sto nemmeno dicendo che raccontano il peggio di Napoli. Non è manco quello, perché il peggio io lo vivo, ed è un problema che la città deve risolvere. Per cui poi è un miracolo che funziona una programmazione teatrale come la nostra. Evidentemente abbiamo fatto un lavoro importante. Di contro tutti i problemi descritti li vedo. Però anche quando si può raccontare la parte buona, anche quella artistica, viene sempre presa quella un po' folkloristica, un po' da zoo. Hai bisogno di quell'animale là per dire che quell'animale è così e mi guardi anche bonariamente “E ma sono simpatici”.
Qual è il rapporto che tu e il Bellini avete con le periferie?
Forse questo è un punto un po' debole. Non abbiamo fatto un lavoro specifico sulle periferie. Perché siamo presi e travolti da questa macchina rocambolesca che è il Teatro Bellini. D'altronde credo molto nella presenza, cioè nello stare, nel vivere. Credo che ci sia bisogno di dare anima sia ai collaboratori che alle compagnie che vengono. E questo implica una cura che è stata molto centralizzata proprio sulla sede. La mia è una sorta di ossessione da cui vorrei liberarmi.
Una volta hai detto che da papà e mamma hai imparato l'amore per il teatro, che però a volte si trasforma in ossessione.
L'ossessione è qualcosa a cui tu pensi continuamente. Magari non sto lavorando e la notte per dire sto pensando a quello. E qui viene un'altra cosa che è un punto critico, un grande cortocircuito, che è quello della famiglia, dei figli. Perché i figli sono chiaramente un valore ma anche un problema. Io senza figli starei tutte le sere a teatro.
Quanti anni hanno?
Sei e tre e mezzo.
È un'età delicata, un'età importante.
Io sono cresciuto in una famiglia presente ma anche molto libera. Potete immaginare quella generazione, andavano, facevano. Invece questa è un po'diversa.
Stai toccando un altro tema importante. Il tuo papà è un monumento del teatro. Come è andato il confronto con lui? Come sei sopravvissuto e come sei riuscito a trovare un tuo spazio?
Ci tengo a dire una cosa. Quando facciamo il bando per le iscrizioni all'Accademia, arrivano circa trecento domande di cui cento da fuori dalla Campania. Il che è un miracolo perché in genere i giovani attori hanno come punto di riferimento il Nord. È difficile che qualcuno dica vado a studiare a Napoli. Ci tengo a dire che nel trentennio di formazione circa il 40% degli attori napoletani è uscito dall'Accademia. Poi hanno continuato a fare l'attore con più o meno successo. La prima cosa è conquistarsi il mestiere, ovverosia vivere di questo mestiere. Altro è il successo o il non successo, diventare popolare o non popolare.
I giovani fanno una grande scommessa. Sanno che il teatro è un settore estremamente complicato e difficile, però ci puntano. Che rapporto hai con i giovani?
Questo è il mio migliore aspetto me lo dicono tutti. Con i giovani è come se fossi più grande della mia età. Nel senso che proprio mi piace. Poi trovo anche io artisticamente un territorio di libertà, di libertà espressiva, di libertà di ricerca.
Hai una tua timidezza e una ritrosia che con i giovani perdi. Quindi la tua potenza di uomo adulto e navigato viene tutta fuori.
Io racconto tutto. Cerco di raccontargli tutto. Mi fido e mi affido, e non ho paura di scoprirmi nelle fragilità.
Credo che con i giovani sia importante farsi vedere nella propria verità, nella propria fragilità. Allora si affidano.
Gli dai in qualche modo un esempio e si affidano, gli consenti di pensare di poterlo fare. Tutti siamo sulla difensiva. Scoprire di poter sbagliare, di poter fare, di poter scoprire che non c'è il giudizio, almeno in quella fase della formazione, per loro è una grande risorsa. Ed è anche un grande abisso.
Perché un abisso?
Perché non ci si è abituati. Per la generazione di oggi la formazione è diventata complessa, con tutto questo Covid, con tutto quello che hanno vissuto, con i social. La formazione è diventa complicatissima, anche a scuola. Perché non sai dove ti puoi spingere, devi stare attento a tutti. Allora ecco il teatro, che comunque da un lato richiede libertà espressiva e dall'altro è super affascinante.
Però richiede anche un rigore.
Un rigore assoluto. Richiede rigore prima di tutto, discipline, tecnica. Però per come la facciamo noi e anche Mimmo, consentiamo libertà. Questa libertà è sempre anche difficile da gestire, soprattutto per un ventenne che invece è magari abituato a una società più attenta al giudizio, al performativo, al costrittivo. Con l'Accademia facciamo un triennio, lo terminiamo e poi si apre il successivo. Non abbiamo la forza di tenere tre annualità. Questo è cominciato a novembre. Devo dire hanno una forza, mi sembra che hanno cominciato benissimo, come gruppo intendo. Da noi i ragazzi e le ragazze trovano la libertà di poter sbagliare, di poter parlare di alcune cose personali. È un luogo in cui ci sono meno tabù.
È quello che dovrebbe essere il processo educativo. Bisogna offrire ai giovani l'opportunità di crescere. Se non gliela offri ti vincoli a un immaginario superato. Come si è sviluppato il confronto con tuo padre? E come sei riuscito a trovare un tuo spazio?
C'è una prima parte che io ritengo una risorsa, quella che vedo a volte nelle mie figlie come potenzialità. Che è l'ascolto che sembra passivo ma in realtà è una mole di informazioni che arrivano in maniera inconsapevole. E mi lego un po' anche alla domanda su Napoli. Quanto ti senti napoletano? Da un lato mi sembrerebbe di non aderire a troppe cose, dall'altro c'è qualcosa che sicuramente mi ha influenzato nella crescita, in maniera anche inconsapevole. Assistere alle prove, addormentarmi dentro un palchetto, dentro un camerino, dietro a una quinta, sicuramente è stata una risorsa. Così come lo è stato ascoltare mio padre anche sulla parte organizzativa. Dentro quella parte lì c'è una grande complessità che aiuta moltissimo a sviluppare la capacità di ragionamento. Sono talmente tanti i rivoli, il Ministero, la programmazione, la tournée. È un lavoro che ti forma. Chi è esterno al teatro non lo può immaginare. “Che bello lo spettacolo, quant'è bello. Ci saranno le prove, ci sarà lo spettacolo”. Ma la parte organizzativo burocratica da un lato ti uccide, dall'altro ti aiuta a mettere in moto il cervello. Perché veramente è molto complessa. I numeri, le verifiche dei numeri, i ragionamenti, la tournée, e vai in sede, e stai fuorisede, tieni la compagnia in produzione, le paghe, la comunicazione, gli abbonamenti. È tutto talmente ricco, vivo. Ho proprio queste scene davanti agli occhi, io che nell'ufficio ascoltavo i suoi ragionamenti. Ecco lui forse non è stato un padre come quelli di oggi, che ti viene a prendere a scuola. Però forse in quei momenti quando sapeva che noi c'eravamo parlava sapendo di essere ascoltato.
Che è il modo migliore di insegnare.
Quindi questo è stato una risorsa.

È stata la tua accademia. Insieme al latte materno hai bevuto parole di teatro.
Ho bevuto parole di teatro. Dopodiché c'è stato un punto di svolta importante, che io ricordo con estrema precisione. Mio padre era una persona rigida, anche con tanti racconti romanzati su questa rigidità estrema. Io sono molto più morbido perché non sempre apprezzavo questa rigidità. Poi ero molto complice degli attori da piccolo, quindi vedere questa rigidità mi faceva star male. Però dall'altro lato mi rassicurava. Mi dicevo che se ci dava una chance era perché era convinto. Devo dire con onestà che invece quando cominciammo avvertii un po' più di morbidezza nei nostri confronti. Questa cosa mi allarmò perché avrei voluto la stessa rigidità che aveva con gli altri, e che mi rassicurava. Invece avvertii qualcosa di più morbido, uno sguardo che in realtà da qualche parte era paterno.
Che cosa hai fatto a quel punto?
Andai proprio in crisi e mi dissi: “devo cercare qualche esperienza fuori da qui per capire da solo”. Perché intanto la passione teatrale era diventata veramente molto personale. Quindi mi dissi “No, io devo vedere fuori”. Poi noi figli incominciammo ad avere i nostri gusti. Noi abbiamo rivoluzionato il teatro rispetto a lui. Non è mai stato così forte nella sua storia. Io feci un provino senza dire niente, fui preso, e questo me lo ricordo proprio come un momento di esplosione. Fui preso in una cosa anche importante, con il regista Francesco Rosi. Quindi mi allontanai. Mio fratello Daniele faceva le sue cose. Metteva su piccole compagnie. Per esempio il Piccolo Bellini lo abbiamo inventato noi a partire da un'intuizione di Daniele a vent'anni.
Tutti e due avevamo questa spinta verso l'esterno, per cercare una nostra identità e anche una conferma. Se avessi visto che non andava probabilmente avrei lasciato. Invece mi andarono bene due tre cose di seguito. Per sei – sette anni mi sono allontanato, sono andato a vedere moltissimo teatro fuori, perché ero cresciuto con il teatro di mio padre. Andai tre mesi a Londra dove tutte le sere mi recavo a teatro. E da lì si è formata questo nostro sguardo sia sul lato artistico ma anche sul lato gestionale, si è sviluppata l'idea di portare il teatro ad essere abitato diversamente, un po' fuori dalle dinamiche della vecchia generazione che in qualche modo era troppo egocentrica.
Tua sorella Roberta come si inserisce in tutto questo?
Roberta ha sempre lavorato molto a fianco di mio padre dal lato amministrativo e gestionale.
Siete una dinastia teatrale. Sì con tante complessità. Poi abbiamo trovato un'unione fra me, Daniele e Roberta. Roberta si occupa di più del lato amministrativo gestionale. Abbiamo cominciato nel 2009 con enormi difficoltà. Perché prendemmo il timone di una nave in tempesta, molto meno solida di come si potesse immaginare dall'esterno, e cominciammo una ricostruzione totale. Allo stesso tempo avevamo la necessità di mantenere il rapporto con il pubblico, con la città. Quindi piano piano cominciammo a modellare la stagione. Non è che siamo arrivati un giorno e abbiamo detto questo no, questo sì. Abbiamo proceduto gradualmente anno dopo anno, conquista dopo conquista, mettendo a posto le economie, razionalizzando i costi, razionalizzando la produzione e intensificando sempre più il rapporto con il pubblico. Il pubblico aumentava con le nostre proposte, a volte rischiose anche rispetto al tipo di sala, che non dobbiamo dimenticare è una sala di novecento posti. La sala da novecento posti è molto grande, quella da cento è piccola. Per cercare di avvicinare un pubblico giovane abbiamo usato molto anche la comunicazione.
A teatro vedo tante e troppe criniere bianche.
Stasera ci saranno spero duecentocinquanta, trecento persone. Però vedrete sicuramente giovani, c'è l'aperitivo prima. Il pubblico del Piccolo che si mischia al Grande, c'è un vernissage che si fa per una piccola mostra. Questo lo facciamo perché io sono fissato sul tema della comunicazione, per arrivare a un pubblico diverso, ai giovani. Cerchiamo di non avere paura di “sporcarci” perché il contenuto sarà sempre quello, una volta più bello una volta più brutto, una volta più necessario una volta meno. Faremo una stagione un anno bellissima un'altra anno meno. Però il modo per attrarre queste nuove generazioni deve cambiare, l'importante è che tu li fai venire, che li crei come spettatori, che gli dai un gancio. Quindi la comunicazione è essenziale.
Non pensi che i costi siano proibitivi?
Da noi gli under 29 pagano 10€ al piccolo Bellini, 15€ in Sala Grande e se si abbonano pagano una media di 8€ a spettacolo. Poi ci sono degli appuntamenti in cui poi tutti i ragionamenti crollano, prezzi, orari, crolla tutto. Li puoi fare il lunedì alle cinque a cinquanta euro e fai pieno. Abbiamo ricostruito il pubblico e quindi abbiamo avuto due tre anni record, di vivacità, di pubblico. Poi è arrivato il Covid. Il Covid ci ha inginocchiato, ha inginocchiato tutti. Però il teatro pubblico, i nazionali si sono inginocchiati relativamente. Faccio una provocazione, i teatri pubblici da chiusi hanno funzionato tantissimo. Noi avevamo in questi anni veramente superato agli occhi dell'opinione pubblica il Mercadante, non c'era più storia. Durante il periodo di chiusura il Mercadante ci ha recuperato in un modo incredibile. Perché hanno comunicazione, l'articolo, l'iniziativa, vuoi fare la riduzione di capienza a duecento persone? Va bene fai duecento persone. Per loro è lo stesso, noi in quella fase invece siamo andati proprio in crisi profonda. Non sapevamo più che fare mentre i teatri pubblici invece funzionavano lo stesso. Quindi nasce l'idea del Bellini 3.0. Poiché io ritenevo che il Covid avesse messo in crisi il rapporto dello spettatore con il teatro, con la vicinanza, nasce l'idea che dovevamo mettere mano alla parte strutturale. Abbiamo incominciato a ristrutturare l'intero teatro. I finanziamenti arrivavano e se fossimo stati tranquilli potevamo avvantaggiarci perché non dovevamo produrre. Molti teatri hanno approfittato per pareggiare i debiti precedenti. Noi invece rilanciamo completamente, e incominciamo da tre anni la ristrutturazione dell'intero teatro, con l'idea che per attirare il pubblico, per riformare pubblico, per lavorare con il pubblico la cura degli spazi sarebbe stata fondamentale. Il teatro è passato da novecento quattro posti a ottocento sessanta. Perché abbiamo rinunciato a cinquanta poltrone della platea per migliorare l'esperienza teatrale dal punto di vista del comfort. Abbiamo rifatto la sala, abbiamo fatto le poltrone, abbiamo rifatto il restauro di tutti i sei piani, abbiamo rifatto il foyer, abbiamo rifatto il botteghino. Abbiamo rifatto l'illuminazione e la facciata. Abbiamo tolto l'impalcatura da poco. Abbiamo fatto la filodiffusione per quando vieni la sera a teatro. Abbiamo i led wall fuori. Prima c'erano i manifesti, ora sono tutti in digitale. In questo la comunicazione è centrale.
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