
Venerdì scorso, 10 novembre, un pianoforte e un contrabbasso hanno riempito lo spazio fisico e quello immaginario della sala principale di Palazzo Venezia, uno dei più suggestivi edifici del Settecento nel cuore del centro storico di Napoli, in occasione della presentazione di Invisible Atlas, ultimo lavoro discografico del duo di musicisti napoletani composto da Ilaria Capalbo e Stefano Falcone e prodotto dalla Skidoo Records.
Il luogo, raffinato e raccolto, ha svolto perfettamente il ruolo di cornice ospitante e, adeguandosi allo stile sobrio ed elegante del duo, lo ha ispirato. Le mani giovani ma al contempo sapienti del pianista e della contrabbassista hanno fatto magia e incantato il pubblico, attento e rapito dalla performance, che non ha mai tradito la loro palpabile emozione; ma che al contrario ha favorito lo scambio empatico tra esecutore e ascoltatore.

Quella tra i due musicisti è una collaborazione di lunga data e la loro immediata intesa ne è testimonianza tangibile. Il duo Capalbo/Falcone lavora principalmente su composizioni originali e co-writing, portando una delle formazioni più complesse della tradizione jazzistica verso un suono fortemente distintivo, di tipo cameristico, condizionato dai rispettivi background e influenzato, senza dubbio, da alcuni dei più grandi maestri del jazz italiano e internazionale.
Tra questi, i contrabbassisti Marc Johnson e Charlie Haden: due modi di suonare estremamente diversi, ma che hanno in comune la ricerca della melodia. Johnson è stato l'ultimo contrabbassista del Bill Evans trio, da cui Ilaria Capalbo dichiara di aver appreso molto, in merito all'arte dell'accompagnamento. Haden, in più, ha esplorato a fondo la dimensione del duo, insieme a Keith Jarrett, raggiungendo vette ineguagliabili con quell'album-capolavoro che è Jasmine (2010).
Citare tutti sarebbe impossibile, ma sono percepibili i riferimenti a Enrico Pieranunzi e Fred Hersch, che rappresentano, per Stefano Falcone, le due principali tradizioni del piano jazz contemporaneo – rispettivamente europea e americana – che finiscono per influenzare inevitabilmente chi suona questo strumento.
L'uscita di questa opera prima è il frutto della necessità di mettere un punto, di scattare finalmente la foto di un viaggio cominciato da tempo.
È una mappa immaginaria costruita su suggestioni molteplici, una sorta di cammino, che poi è anche quello reale di due ragazzi e del loro incontro artistico che oggi li ha condotti fin qui.
È un album articolato su otto tracce, con un prologo ed un epilogo: Invisible Atlas è il brano che non solo dà il titolo album, ma il cui impasto sonoro è la summa del pensiero musicale dell'intero lavoro. Dal punto di vista tecnico, si ricollega al penultimo brano, Borealis, perché in entrambi si alternano parti di musica scritta a parti di improvvisazione radicale. Vesuvius è tra quelli emotivamente più importanti poiché parla delle radici, del forte legame con i luoghi di nascita e i territori di crescita. Il suono è volutamente scuro, ma al contempo romantico: incarna perfettamente il carattere del “gigante buono”, emblema di Napoli.
Anche For T ha un impatto percettivo molto forte: è una vera e propria ballad dalla melodia dolce e avvolgente ed è il brano che forse nel disco rispecchia maggiormente la loro impronta di “musicisti jazz”, perché rispetto agli altri è molto più tradizionale, sia per struttura che per armonia.
Salt, invece, è un pezzo strutturato, che deriva dal background classico e rappresenta una buona sintesi tra passato e presente musicale. Folk Tale è un racconto, una storia che si presenta come una canzone. E la conclusione di questa storia è riproposta dalla voce di Ilaria Capalbo in Epilogue, il ritorno a casa da questo meraviglioso viaggio, canticchiando quella melodia che continua a tornarci in mente.


Conosco entrambi da molto tempo e li ho visti maturare musicalmente negli anni. Meritano di essere annoverati tra i nuovi talenti più interessanti della scena jazz italiana. Ci sarà la giusta distanza? Questo non lo so, ma mi piace pensare che un giudizio qualitativo, quando si tratta di musica, non prescinda mai del tutto dal coinvolgimento emotivo da parte di chi la recepisce.
Invisible Atlas è un punto di arrivo, denso a tal punto di sostanza che non può che rappresentare per i due musicisti anche il prossimo, promettente, punto di partenza.
Ascoltate, dunque, e giudicate voi stessi.
AF
Ilaria Capalbo é una contrabbassista jazz italiana. Ha studiato con Aldo Vigorito, Jan Adefelt, Ferruccio Spinetti, Silvia Bolognesi, Stefano Battaglia, Sandro Deidda, Scott Colley, Michael Blake, Steve Lehman, Reuben Rogers, Eric Revis e Kevin Hays. Ha collaborato con artisti internazionali come Norma Winstone e si esibisce regolarmente nella propria città, in Italia e in nord Europa, in cui risiede e nella cui scena jazzistica si è inserita a pieno titolo. Oltre all'attività in ensemble porta avanti una ricerca sul suono del contrabbasso ed il suo ruolo come strumento solista ed improvvisatore piuttosto che di accompagnamento. Attualmente frequenta il secondo anno del master di specializzazione in Jazz Performance presso il KMH di Stoccolma.
Stefano Falcone è un pianista italiano di formazione classica e jazzistica. Ha seguito corsi di formazione con Aaron Parks, Michael Blake, Steve Lehman, Rueben Rogers, Scott Colley, Aaron Goldberg e Kevin Hays. Gli ultimi lavori l'hanno visto impegnato nella registrazione di una performance di libera improvvisazione in collaborazione con l'etichetta Solitunes Records, culminata nella realizzazione di un disco dal titolo “Fourteentunes” (distribuito da Jazzit nel 2017) in cui è presente con un brano dal titolo “Telos”. Nello stesso periodo registra un arrangiamento originale per piano e contrabbasso del brano di Duke Ellington dal titolo “Come Sunday”, selezionato dall'etichetta M.i.l.k. per il progetto “Homemade” in collaborazione con la rivista Downbeat.
Stefano Falcone: www.stefanofalcone.com
Ilaria Capalbo: www.ilariacapalbo.com
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/capalbo.falcone/
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