
Delle elezioni in Israele si scrive in tutto il mondo. Guardare a quello che accade a Tel Aviv è importante perché possono esserci importanti ripercussioni in tanti paesi e non solo dell'area mediorientale. Dopo queste elezioni, una cosa però è certa: comunque andrà a finire la formazione del nuovo governo, i destini dei palestinesi, rinchiusi in una prigione a cielo aperto, non cambieranno.
Infatti non ci si può aspettare nessuna rivoluzione sulla pace e la giustizia.
Con tutto il rispetto per Romano Prodi, la storia mi dice che non sarà proprio così quando scrive che «la più certa e importante è la fine del lungo potere egemonico di Netanyahu, continuamente in lotta con la minoranza palestinese, dato il suo proposito di annettere allo Stato di Israele la West Bank, cioè le tradizionali regioni della Giudea e della Samaria. Allo stesso modo questo cambiamento dovrebbe almeno rallentare la costruzione del muro che non solo separa gli israeliani dai palestinesi, ma divide in modo del tutto crudele e inaccettabile i palestinesi stessi fra di loro» [1]. Del resto come Prodi ammette difficilmente si potrà tornare all'idea di due Stati indipendenti. Per questo manca anche l'unità dei palestinesi. Come scrive Zvi Schuldiner «per Netanyahu oggi, come fu per Sharon nel 2005 quando decise il ritiro unilaterale dalla Striscia, l'obiettivo politico è chiaro: la tensione in quel carcere a cielo aperto che è Gaza, la repressione e scontri di limitata entità sono fatti che consentono di andare avanti con il grande progetto della destra nazionalista di Israele, vale a dire la progressiva, graduale annessione della Cisgiordania. Per Hamas, la tensione, i morti e i risultati sono parte del conflitto interno» [2].
Il presidente israeliano, Reuven Rivlin ha iniziato la due giorni di consultazioni stabilire a quale candidato conferire il mandato per la formazione del nuovo governo. Dopo cinque mesi e due elezioni nulla è chiaro. Infatti il voto, avvenuto con sistema proporzionale, ha restituito un quadro intricato con la suddivisione dei seggi della Knesset, il Parlamento israeliano (120 deputati), in questo modo:
Kahol Lavan (Blu e Bianco) 33, Likud 31, Joint List 13, Shas 9, Yisrael Beiteinu 8, UTj 8, Labor-Gesher 6, Democratic Union 5. Servono almeno 61 seggi per avere la maggioranza ed è chiaro che costituirla sarà complicato e comunque sarà sempre una maggioranza risicata e soggetta a continui scossoni.
I contendenti per il ruolo di premier sono il capo dell'esecutivo uscente Benjamin Netanyahu (ne aveva 35 di seggi ed è quindi uscito sconfitto dalle urne) a capo del partito di destra Likud e l'ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz del partito di centro Kahol Lavan. Se dovessero sostenerlo, come sembra dopo le prime dichiarazioni, i sei rappresentanti eletti del Labour-Gesher, i cinque dell'Unione Democratica e i tredici della Joint List, la coalizione di quattro partiti a maggioranza araba con a capo Ayman Odeh e i cui sostenitori sono andati a votare in tanti, i parlamentari a votargli la fiducia sarebbero 57, lontani dai 61 di una maggioranza risicata. Una chance potrebbe giungere da un'apertura di Avigdor Liberman, ex ministro della Difesa e leader di Yisrael Beiteinu che gode di otto seggi, quasi tutti sottratti al Likud, e che nei mesi passati per la sua intransigenza nei confronti dei partiti religiosi ha impedito la nascita di un esecutivo dopo il voto dello scorso aprile.
È anche possibile che il Presidente dopo aver verificato l'impossibilità di far nascere un esecutivo convochi Gantz e Netanyahu per promuovere la formazione di un governo di unità nazionale anche se al momento Gantz non sembri essere disponibile. Ad ottobre, non dimentichiamo, il Procuratore generale dovrà decidere se rinviare a processo Netanyahu in quanto accusato di corruzione. Un politico che è in sella dal 1996 e ha governato ininterrottamente più di David Ben Gurion non uscirà facilmente di scena. Se è vero come dicono molti osservatori che la deriva della democrazia è stata arrestata con la sua sconfitta elettorale, è altrettanto vero che la sua non è una sconfitta definitiva perché, come spiega Anshel Pfeffer «si è appellato alla triade che sempre tira fuori dal cappello quando è in difficoltà. La minaccia iraniana, l'amicizia con Trump, il pericolo rappresentato dalla popolazione araba di Israele e dai suoi politici. “Israele di fronte a tutto questo ha bisogno di me”» [3].
Pasquale Esposito
[1] Romano Prodi, “Declino Netanyahu/ L'orizzonte incerto di Israele e suoi effetti”, https://www.ilmessaggero.it/editoriali/romano_prodi/editoriale_romano_prodi-4749148.html, 22 settembre 2019
[2] Zvi Schuldiner, “Israele verso le elezioni, ai margini di un nuovo conflitto armato”, https://ilmanifesto.it/israele-verso-le-elezioni-ai-margini-di-un-nuovo-conflitto-armato/, 15 settembre 2019
[3] Francesca Caferri, “Pfeffer «Ora dovrà negoziare per salvarsi Anche dai processi”», la Repubblica, 19 settembre 2019 pag. 13
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