
Ecco che l’inverno del nostro scontento s’è fatto sconfitta lancinante per l’Italia di rugby sotto i pochi raggi di sole a Llanelli (Galles).
Finisce con la sconfitta, l’ottava di fila per il nuovo tecnico Franco Smith, l’avventura della nazionale italiana di rugby nella prima edizione della Autumn Nations Cup, torneo che si posiziona tra la fine delle tournée estive ed il Sei Nazioni di fine gennaio.
38 a 18 per alla fine per il Galles che con pazienza rimetteva in ordine il suo gioco dopo esser stato messo in difficoltà per circa 60 minuti da una Italia con qualche idea brillante in attacco (due mete azzurre, una per tempo).
Poi il solito crollo con gli avversari a fare i Lanzichenecchi nella nostra area di meta (ben tre nel secondo tempo). Però almeno gli azzurri si sono concessi il lusso e l’illusione di restare circa sette minuti in vantaggio di un punto sul Galles grazie ad una bella meta del nostro sette, Meyer.
Un bagliore di luce dopo la catastrofica partita in Francia dove le abbiamo prese di brutto contro una Francia ritenuta erroneamente “B”, ma che invece rappresenta la proiezione transalpina pianificata per i mondiali del 2023, proprio in casa dei galletti.
Il vero problema della Nazionale italiana è di trovare una vittoria dopo tantissime sconfitte, 36 su 37 giocate contro le nazionali di prima fascia, troppe per non lasciare una cicatrice profonde e tanta sfiducia, a tutti i livelli.
Così cala l’interesse del pubblico per i grandi eventi, si avvita un movimento che per un breve periodo ha catalizzato energie positive specialmente agli inizi degli anni 2000, ossia all’ingresso dei nostri nel Sei Nazioni, qualche stagione alterna con piccole perle di speranza e poi un lungo tunnel buio cosparso di delusioni ed occasioni mancate.
Ad ogni livello, dalla stampa specializzata agli addetti ai lavori ed anche da parte degli appassionati, si è alla ricerca disperata, quasi totemica, con sentori di woodoo, della pozione magica da far bere al nostro rugby e rompere l’incantesimo.
Bella storia per la Disney.
Ahimè professionalità, sacrificio, amore per lo sport di base, spogliarsi da ogni interesse personale per il bene della causa comune, sembrano ad occhio le fondamenta di un movimento che vuole costruire i successi del domani.
Troviamo questi valori nello sport più puro, lo Sport Popolare e dal Basso, dove i bambini non pagano un centesimo e non si guarda al profitto.
Imperversa la solita e sacrosanta diatriba Accademia si, Accademia no, la Ivan Francescato, che dovrebbe sfornare da anni talenti internazionali, ma sempre più spesso peschiamo giocatori eleggibili formati all’estero, qualcuno con parenti italiani altri affatto.
Far scendere il denaro alle società rugbystiche sparse sul territorio? Qui c’è un “rugby divide” impressionate per cultura, strutture, non credo per passione, che taglia in due il nord con il resto della penisola.
Dalla mia piccola esperienza posso dire che il minirugby di base raramente non viene percepito come potenziale fonte di reddito delle società che combattono per la sopravvivenza ed i conti sempre a pezzi. Solo il rugby popolare, spesso in spazi occupati, produce numeri interessanti di partecipazione attiva con decine di bambini, guarda caso dove non c’è bisogno di sborsare denaro per lo sport.
Li reggerà il rugby italiano altri 10 anni o più di tante sconfitte e qualche vittoria qua e là? Il rugby, ma come del resto lo sport in generale, rappresenta la capacità di una nazione di eccellere, di dimostrare pianificazione ed organizzazione e se non ci si mette in testa di affrontare uno sforzo sistemico e riformatorio del nostro sistema sport, difficilmente rialzeremo la testa.
Zobie la Touche
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