
Nel 1981 camminavo per le strade di una notturna ed inquieta Londra, cercando di raggiungere a piedi, avendo perso l'autobus delle ore piccole, Notting Hill da Maida Vale. Nei pressi di Ladbroke Grove, oltrepassando un cavalcavia che attraversava la linea metropolitana ebbi una folgorazione.
Fra i bagliori intermittenti di luci arancioni che illuminavano i contorni di quel paesaggio urbano, lo stridore dei freni che si lamentavano sui binari e le scintille bianche che si riflettevano sul ferro vidi Fred Astaire danzare leggiadro sulle macerie del mondo nuovo e quelle parole che avevo sentito risuonare qualche mese prima mi sembrarono più vere e sarcastiche: “Enjoy yourself, this is the new age”. Edonismo? No, consapevolezza e scherno…Killing Joke, lo scherzo che uccide, uno dei gruppi inglesi che agli inizi degli anni ottanta sparsero semi che avrebbero dato frutti meravigliosamente avvelenati negli anni a venire (chiedete alla gran parte dei musicisti alternativi americani degli anni novanta da dove avessero preso le mosse).
I Killing Joke li avevo visti a Milano poco prima di partire per Londra e avevano suonato quarantacinque minuti esatti, un po' poco rispetto agli standard abituali dei live, ma l'intensità del loro sforzo e la violenza animalesca di quell'assalto erano direttamente proporzionali al sudore ed allo sconquasso psico-fisico che provocavano nell'ascoltatore; avevo realizzato, quindi, che un secondo di più di quella musica sarebbe stato fatale per loro e per me.
Questo sound che partiva dal punk, per scavalcarlo tentando soluzioni ardite, incroci pericolosi con i ritmi robotici dei Kraftwerk e di Giorgio Moroder, ritmi marziali, la batteria tutta suonata sui tamburi come un richiamo continuo alla mobilitazione permanente delle coscienze, il basso dub che gettava ponti fra culture alternative diverse, le chitarre suonate solo a riff sulfurei e iper metallici…musica per ballare: Wardance, danza di guerra, per guidare la rivolta contro l'incubo industriale e capitalistico che attendeva il mondo del futuro. Un simile coacervo di sentimenti poteva portare all'alienazione ed infatti via via che i dischi si susseguivano, la musica si faceva sempre più claustrofobica e cattiva, un flusso sonoro denso ed urticante che metteva a dura prova le percezioni sensoriali. La via d'uscita da quello che sembrava un vero e proprio vicolo cieco fu, nel 1985, la sublimazione della rabbia in una lirica e lucida malinconia dark e una canzone quasi pop, per gli standard dei Killing Joke, Love like blood, con cui hanno aperto il concerto di Roma del 22 aprile, trentun'anni dopo la prima visita romana, all'Orion Club, la sala da concerti più bella della capitale (stiamo parlando di rock!).
In formazione originale, dopo gli anni novanta passati in progetti solistici, il cantante Jaz Coleman ad orchestrare tributi sinfonici per Led Zeppelin, Pink Floyd e Rolling Stones, il bassista Youth come influente produttore di dub e techno, gli altri due con altre band, senza aver perso neanche una goccia della potenza e dello smalto del passato. Una scaletta dosata fra vecchi inni immortali, Requiem, The wait, Wardance, Psssyche, Change, Asteroid e nuove canzoni contenute nell'album appena uscito MMXII. Ritmi sempre serrati, batteria moto perpetuo e basso pompato (quando sono entrato nel locale la musica pre-concerto era I feel love di Donna Summer-Giorgio Moroder, un caso?), chitarra in flanger sidereo, Jaz Coleman in tuta mimetica e sguardo apocalittico, pubblico numeroso, caldo ed incredulo, soprattutto i ragazzi giovani che non avevano avuto mai la possibilità di assistere ad una loro performance. Il tempo, forse, li ha resi più consapevoli nel dosare piano e forte, laddove agli esordi la loro musica era un'unica estenuante corsa verso la vertigine.
E mentre uscivo dall'Orion e camminavo verso la macchina mi chiedevo : “ma perché, se i padri sono ancora così incazzati, i figli sono pulitini e perfettini come i Coldplay?”.
Mario Barricella
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