
Quando nel maggio del 1981, mi recai a Bologna per vedere i Kraftwerk, ero consapevole di assistere a qualcosa fuori dall’ordinario, ma non avrei mai creduto di fare un salto vertiginoso nel futuro. Tutto, intorno, stava cambiando, i Talking Heads cantavano “sto vivendo nel futuro, sto benissimo”, la musica, con l’implosione del big bang punk e la prorompente vitalità di una nuova generazione stava prendendo mille direzioni imprevedibili ed eccitanti.
I quattro tedeschi giungevano in Italia al culmine della loro parabola creativa, dopo aver sfornato una serie di dischi che avrebbero disegnato gli scenari prossimi della musica moderna. Fu molto lo stupore quando, apertosi il sipario, ci accorgemmo che i Kraftwerk avevano delegato i propri cloni robot ad aprire le danze. Non che cambiasse molto la prospettiva una volta che gli esseri umani in carne ed ossa presero postazione su quel palco-laboratorio-astronave. La stessa statiticità e laconicità delle macchine, ma come? Dov’era il sudore, il sacrificio, l’orgia collettiva che eravamo soliti pretendere da un live? Lo spettacolo era la negazione del concetto stesso di rock come lo avevamo sempre inteso. Non c’erano chitarre, batterie, chiome leonine, adrenalina e testosterone a zampilli. Sul palco c’erano quattro ingegneri, vestiti come impiegati del catasto che dialogavano con le macchine e traevano da esse struggenti melodie che raccontavano di viaggi in treno, autostrade, appuntamenti a Parigi sugli Champs-Élysées. Il ritmo era sintetico (il famoso motorik: motor + musik). Oscillava tra il minimum decadente dei vecchi quartieri delle capitali europee ed il maximum del battito accelerato degli agglomerati industriali delle metropoli moderne, con i rumori quotidiani che trovavano un’insospettabile dignità in questi paesaggi sonori. Alla faccia dei luddisti, la macchina era amica, al servizio dell’uomo, anche quando le veniva consentito di esalare un respiro, replicare un battito, articolare un’emissione vocale. Il distillato che veniva elaborato nei laboratori Kling-Klang di Dusseldorf era una musica assolutamente originale e primigenia, che non pagava conti a nessuno nel mondo del rock. Prendeva, piuttosto, le mosse da quel calderone creativo che era la Germania musicale underground della fine degli anni sessanta, dove giovani scapigliati frequentavano i seminari di Stockhausen, e aveva una visione del domani, come Metropolis di Fritz Lang.
Florian Schneider, Ralf Hutter, Wolfgang Flur e Karl Bartos (la formazione classica dei Kraftwerk), gli antidivi per eccellenza, arbeiter (lavoratori) con un’idea dell’arte che non era genio e sregolatezza, droghe e star system ma piuttosto architettura e moralità. Da lì in poi, tutta la musica moderna sarebbe stata debitrice nei loro confronti, vuoi che fosse semplice tappezzeria sonora, vuoi che fosse colonna sonora al divertimento sfrenato.
Le memorabili gesta dei nostri eroi, le troverete in questo splendido libro di David Buckley, Kraftwerk Publikation edito da Arcana, in cui l’autore parte dagli incubi e i sensi di colpa di una generazione che era figlia dei fanti di Hitler per arrivare al Moma di New York, dove, nel 2012, per una settimana, il gruppo tedesco ha esposto la propria musica come un’opera d’arte vivente.
Nel 1977 John Foxx degli Ultravox cantava “Voglio essere una macchina”, grido disperato di una gioventù che vedeva un mondo scarnificato di sentimenti. L’anno dopo i Kraftwerk aprivano il loro disco The Man Machine affermando “Noi siamo i robots”, ma con la coda dell’orecchio ne potevi captare l’ironia…del resto cosa c’è di più umano del battito cardiaco?
Mario Barricella
David Buckley
Kraftwerk Publikation
Arcana Edizioni, settembre 2013
pp. 320, € 26,50
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