La crisi in Thailandia. Intervista a Gabriele Giovannini

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La Thailandia vive un momento turbolento della sua vita politica e sociale. In un’intervista Gabriele Giovannini, esperto dell’area del Sud-est asiatico e dottorando in Relazioni Internazionali presso la Northumbria University di Newcastle. ci aiuta a far luce sulle dinamiche della crisi.

Da dove nasce questa crisi dilaniante? È solo una risposta al controverso progetto di legge di amnistia per reati politici?
Certamente le cause della crisi attuale sono molto più profonde, tuttavia la proposta di legge di amnistia a mio parere ha rotto il fragile equilibrio che ha garantito stabilità al paese dalle elezioni del luglio 2011. Quest’equlibrio si era infatti retto sul compromesso di lasciar governare il partito Pheu Thai a patto che il vero leader del partito, Thaksin Shinawatra, restasse lontano dal paese ed estraneo alla vita politica thailandese.

Con i manifestanti entrati negli uffici del Ministero degli Esteri  e del Ministero delle Finanze, la Thailandia potrebbe ritrovarsi  al 2010 quando Camicie Rosse e Camicie Gialle si scontrarono pesantemente?
Il rischio che si possano ripetere gli eventi della primavera del 2010 è piuttosto elevato e del resto gli scontri delle passate settimane lo dimostrano chiaramente. Ad oggi sono già stati registrati cinque morti contro i 90 del 2010. Ci sono però notevoli differenze tra le due situazioni: nel 2010 il governo ha reagito in modo molto più deciso mentre Yingluck Shinawatra fino ad ora ha cercato in tutti i modi la mediazione e ieri mattina ha annunciato lo scioglimento della Camera e nuove elezioni che probabilmente si terranno il prossimo 2 febbraio. Dato però che i suoi oppositori non sembrano ancora soddisfatti l’incertezza rimane.

Dietro i due partiti ci sono  le realtà sociali ed economiche che si scontrano? L’economia thailandese sta subendo contraccolpi?
Si, possiamo affermare che il Partito Democratico sia espressione dell’élite di Bangkok, mentre il Pheu Thai rappresenti le fasce più povere della popolazione soprattutto nel nord est del paese. Questa frattura sociale e geografica si è consolidata durante il primo mandato di Thaksin dal 2001 al 2005 grazie alle politiche di sostegno alla povertà – definite populiste dagli oppositori – che hanno permesso di ridurre dal 21% al 12% la quota di thailandesi costretti a vivere con meno di due dollari al giorno. Nel 2011 ciò è emerso chiaramente con la netta vittoria del Pheu Thai che ha ottenuto 104 seggi su 108 nell’area nord-orientale.
Per quanto riguarda le ripercussioni sull’economia la flessione del Pil dell’ultimo anno non può attribuirsi alla situazione politica e più in generale tutta la storia thailandese mostra un’ottima capacità di unire instabilità politica e crescita economica.

A quali condizioni si potrà pacificare il Paese? Il sovrano Bhumibhol Adulyadej può essere un protagonista di una riconciliazione?
Difficile dire in che modo il paese possa trovare un nuovo e duraturo compromesso dal momento che il Pheu Thai con ogni probabilità vincerà anche le prossime elezioni. Va ricordato che da quando la Thailandia si è data un assetto democratico nel 1932 ci sono stati 11 colpi di stato e 17 carte costituzionali. Le istituzioni democratiche devono ancora consolidarsi, ma è difficile stabilire come e quando possa accadere. I manifestanti che affollano le vie di Bangkok rigettano esplicitamente lo stesso assetto istituzionale, che secondo loro sacrifica la giustizia alla dittatura della maggioranza.
Quanto al Re ormai da diversi anni versa in precarie condizioni di salute e pur restando un simbolo dell’unità nazionale è escluso che possa riuscire a riconciliare il paese.

Una crisi prolungata a livello internazionale potrebbe avere ripercussioni nel quadro delle relazioni nell’area? A chi gioverebbe l’instabilità di Bangkok? I separatisti islamici delle province del confine meridionale avrebbero facilità di manovra aggravando una situazione già difficile?
Dal punto di vista internazionale va sottolineato che, come per l’economia, la storia thailandese mostra una soprprendente capacità di salvaguardare i rapporti internazionali anche in momenti di forte fragilità interna. A mio modo di vedere proprio i solidi legami di Bangkok con una pluralità di attori sia regionali che internazionali possono in qualche modo favorire una soluzione pacifica. Il tentativo dell’ambasciatore cinese di mediare nelle scorse settimane, ad esempio, mostra come Pechino abbia tutto l’interesse alla stabilità in Thailandia.
Il movimento separatista attivo nelle province meridionali non credo possa trarre particolare vantaggio dalla crisi attuale esattamente come nel 2010. Non va dimenticato che l’esercito ha un ruolo fondamentale in Thailandia che le crisi politiche non intaccano minimamente.

Un paio di domande per finire: quando e come mai ha iniziato ad occuparsi del Sud-est asiatico? Per chi volesse approfondire le tematiche di quell’area e della Thailandia in particolare cosa consiglia ai nostri lettori?
Ho iniziato a studiare il Sud-est asiatico nel 2010 durante la specialistica in Relazioni Internazionali e mi ha affascinato sin da subito sia sotto il profilo storico che dal punto di vista geopolitico. Mano a mano però mi sono focalizzato sulla regione del Mekong perché credo abbia dinamiche storiche, economiche e sociali più simili al suo interno.
Per iniziare a conoscere la Thailandia consiglio sicuramente i testi a quattro mani di Chris Baker e Pasuk Phongpaichit  “A History of Thailand” e “Thaksin“.

Grazie per la sua disponibilità e per averci aiutato ad interpretare il quadro politico della realtà thailandese.
Pasquale Esposito

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