
Che cosa accade se una produzione televisiva prova a coniugare Il Padrino con Shtisel? È questa la domanda che mi sono posto – provocato dal titolo intrigante di un importante media israeliano [1] – di fronte a La famiglia dei diamanti (in originale Rough Diamonds), una delle ultime serie che Netflix ha pubblicato e prodotto e che ha come (apparente) soggetto predominate il mondo dell'ebraismo cosiddetto ortodosso.
Per la verità, a sicuro demerito della celeberrima piattaforma, debbo premettere con rammarico che sono state da poco ritirate proprio le tre serie di Shtisel, che attualmente risultano – ahimè – materialmente inaccessibili a chi volesse apprezzarne la bellezza. Nemmeno acquistare i DVD – succedaneo antico ma sempre valido per scegliere di vedere qualcosa – sembra così facile [2]. Ma questo porterebbe ad altre considerazioni sull'apparente disponibilità dei prodotti acquistati (o meglio noleggiati) sul web (come i libri digitali), e rimando il discorso – tutt'altro che lineare – ad altra occasione.
Torno perciò a questa nuova serie, composta di otto episodi di circa 50 minuti ciascuno. La famiglia di cui si parla si chiama Wolfson e viene presentata come una antica famiglia di ebrei askenaziti insediata da secoli ad Anversa (Antwerpen nella dizione nederlandese), capitale mondiale del commercio dei diamanti.
Nella serie, i Wolfson – occupati da lungo tempo nel commercio delle gemme – si trovano tuttavia di fronte ad una drammatica crisi, considerato che – come si dice ironicamente in uno degli episodi – «l'industria dei diamanti non è più quella di una volta. Il lavoro c'è, ma non è più un sostentamento garantito. Al giorno d'oggi, ci sono persino idraulici ebrei». Tutto esplode allorquando il più giovane erede si toglie drammaticamente la vita. La causa è imbarazzante: ha contratto imponenti debiti di gioco con una organizzazione malavitosa. Questo fatto porta di nuovo in città, per partecipare al funerale del giovane, Noah (il protagonista della serie, interpretato da Kevin Janssnen), fratello dello scomparso, il quale anni prima aveva abbandonato lavoro, famiglia e religione per trasferirsi altrove, a Londra. Noah, nell'imbarazzo generale di molti degli astanti, si presenta alla cerimonia funebre – tra donne imparruccate e uomini col pastrano nero e lo shtreimel in testa – con tutte le apparenze di un “gentile” (ossia, un non ebreo), con tanto di figlioletto al seguito, da poco orfano di madre.
Noah è infatti vedovo, come vedova è ora Gila, la moglie del fratello suicida: la quale – prima che Noah fuggisse per l'Inghilterra – era anche sua promessa sposa. Quell'amore, troncato dalla fuga di Noah, prova ad aprirsi un nuovo difficile varco e inizia così per gli spettatori la scoperta della vita e delle dinamiche dell'ebraismo degli Haredìm [3]: una realtà dalla quale Noah è assai distante nel suo presente, ancora ignoto alla famiglia Wolfson. Egli, infatti, si è legato – dopo la sua partenza di apostata – nientepopodimeno che al mondo londinese dei trafficanti di stupefacenti e ha come boss la suocera, nonna del piccolo figlioletto.
Lascio ai volenterosi ed ai curiosi di addentrarsi a piacimento nella trama e nella visione degli episodi proposti. Debbo confessare che a me – nonostante sia arrivato a questa serie attraverso le segnalazioni del circuito di interessati all'ebraismo, di cui da tempo faccio parte [4] – la serie ha destato più di qualche perplessità. A parte alcune analogie con la magistrale pellicola – ormai lontana nel tempo: è uscita nel 1992 – A Stranger Among Us [5], mi sembra infatti che il ritratto del mondo degli ebrei di Anversa, al di là della pur interessante descrizione del mondo del commercio di diamanti e di una certa penetrazione all'interno dell'identità religiosa, ne esca piuttosto improbabile. Anche perché – lo ha notato qualche osservatore, ma il dubbio sembra se lo siano posto gli stessi autori della serie – non mi sembra inesistente la possibilità di produrre (seppure involontariamente) una qualche forma di reazione antisemita, proponendo la connection tra il mondo ebraico ortodosso e la criminalità organizzata [6]. È vero che – secondo una certa vulgata e volendo collocare l'ebraismo in una ambientazione da thriller – occorreva confezionare una storia con ingredienti di qualche robustezza ed emozione, così che essa risultasse attraente, apprezzabile e gradevole anche per il pubblico mainstream [7]: ma – francamente – un racconto che sviluppa la connessione (inedita) della comunità hassidica con la malavita balcanica e i trafficanti internazionali di stupefacenti mi pare plausibile solo con esigenze (acrobatiche) di narrazione cinematografica.
Ciò premesso, la storia – seppure con i suoi limiti – non è priva di qualità e interesse: a parte gli schemi più propriamente e tradizionalmente polizieschi (una detective spregiudicata ed ostinata viene osteggiata dai suoi superiori, preoccupati soprattutto di non urtare troppo gli assetti tradizionali del piccolo mondo cittadino), La famiglia dei diamanti descrive infatti assai bene come sia possibile – per un malinteso senso della famiglia e dell'onore clanico – trasformare l'apparente difesa del mondo degli affetti in veri comportamenti malavitosi.
La progressiva contaminazione con gli ambienti criminali non è limitata a chi – come Noah – ha abbandonato il mondo della fede e dell'osservanza, ma si estende un po' a molti dei protagonisti, che si avvolgono progressivamente (e in parte già lo erano) nelle spire del compromesso con la propria coscienza e con il sistema di valori della propria comunità e della stessa società civile.
I dialoghi multilingue si svolgono con passaggi rapidi dallo yiddish al fiammingo, passando per l'inglese e il francese, in omaggio al tradizionale poliglottismo della città di Antwerpen e della stessa comunità ebraica locale. Uno sforzo linguistico che ha coinvolto in primo luogo alcuni degli attori (ma anche lo staff), i quali hanno dovuto seguire l'insegnamento e il training necessario soprattutto per poter utilizzare credibilmente la lingua universale del mondo askenazita [8].
In conclusione, a me pare che la serie strizzi l'occhio all'ebraismo per attirare pubblico, parlando d'altro e rischiando di deludere. La connessione de La famiglia dei diamanti con le storie del mondo religioso di Shtisel mi sembra infatti piuttosto strumentale che sostanziale. Così come a Noah (forse) non basta mettere una kippah in testa nel giorno del kippur per tornare davvero nel seno del mondo dal quale è clamorosamente uscito, così (forse) non basta far parlare yiddish per spiegare davvero cosa alberghi nel mondo particolare dell'ebraismo askenazita, seppure descriverlo minutamente – probabilmente – aiuta.
Paolo Sassi
La famiglia dei diamanti
Titolo originale: Rough Diamonds
Belgio, Israele 2023
dal 21 aprile 2023 su Netflix – 8 episodi da 50 minuti circa
Regia: Rotem Shamir, Cecilia Verheyden
Soggetto: Yuval Yefet, Cristophe Dirikx
Lingue originali: yiddish, fiammingo, inglese, francese
Musiche: Stan Lee Cole
Costumi: Vanessa Evrard
Produzione: Keshet International, De Mensen
Interpreti e personaggi principali
Kevin Janssens: Noah Wolfson
Ini Massez: Adina Glazer
Marie Vink: Gila Wolfson
Robbie Cleiren : Eli Wolfson
Yona Elian: Sarah Wolfson
Els Dottermans: Jo Smets
Casper Knopf: Tommy MaCabe
Janne Desmet: Rivki Wolfson
Tine Joustra: Kerra McCabe
Kasper Vandenberge: Maarten Prinsen
Gene Bervoets: Matthias Domunt
Jeroen Van der Ven: Benny Feldman
Sofie Decleir: Nicole Van Goethem
Dudu Fisher: Ezra Wolfson
[1] Cfr. Amy Spiro, «‘Godfather' meets ‘Shtisel': New Netflix thriller delves into Haredi diamond dealers», in The Times of Israel del 21 aprile 2023, https://www.timesofisrael.com/godfather-meets-shtisel-new-netflix-thriller-delves-into-haredi-diamond-dealers/.
[2] Si possono rintracciare ed acquistare solo le prime due stagioni, con sottotitoli esclusivamente in francese.
[3] Ho avuto occasione di parlarne a proposito di Shtisel: essi sono una corrente dell'ebraismo che – con molta approssimazione – potremmo definire “tradizionalista” e si rifanno a grandi maestri ebrei vissuti nell'Europa orientale del XVIII secolo: vivono tra Israele, America del Nord ed Europa. Osservando una scrupolosa separazione tra uomini e donne, intessono prevalentemente relazioni sociali interne alla comunità, in contesti di famiglie speso numerose. Dedicano comunque la maggior parte del tempo (in particolare gli uomini) allo studio delle scritture ebraiche nelle scuole religiose. Le famiglie combinano matrimoni con il ricorso a sensali di professione. E poi, hanno un rapporto complicato con la modernità: ad esempio, diffidano della televisione, temono internet ed usano prevalentemente telefoni cellulari con funzioni limitate, per non rischiare di avere accesso a messaggi dal contenuto inappropriato. A differenza delle famiglie descritte in Shtisel, i Wolfson non sono affatto di modesta condizione economica, anzi. Cfr. Paolo Sassi, «Il sorprendente incantesimo della famiglia Shtisel», https://www.notizieitalianews.com/2021/03/il-sorprendente-incantesimo-della-famiglia-shtisel.html.
[4] Cfr. le recensioni di sostanziale apprezzamento Michelle Zarfati e Luca Spizzichino sul settimanale Shalom della Comunità ebraica di Roma: https://www.shalom.it/blog/cultura-a-roma-bc211/la-famiglia-dei-diamanti-il-mondo-ebraico-ortodosso-tra-thriller-e-colpi-di-scena-b1130601 e https://www.shalom.it/blog/cultura-a-roma-bc211/la-famiglia-dei-diamanti-dopo-shtisel-ecco-la-nuova-serie-netflix-sulla-comunita-chassidica-b1130251.
[5] Una estranea fra noi, di Sidney Lumet, con la magistrale interpretazione di Melanie Griffith ed ambientata nel mondo analogo dei commercianti di diamanti ebrei newyorkesi.
[6] «Yefet e Shamir hanno affermato di essere sempre stati consapevoli del potenziale di reazioni antisemite allo spettacolo – in particolare quando mostra ebrei ortodossi con legami con la criminalità organizzata – ma si sono anche sforzati di presentare un ritratto sfumato e umanizzante di una comunità che è spesso in gran parte chiusa dal grande pubblico». Così L. Spizzichino, cit.
[7] Sostanzialmente positivo il giudizio sulla serie – incasellata nel solco dei thriller mainstream – di Adrian Hennigan per Haaretz, «‘Citadel' Fails to Scale the Heights, but ‘Rough Diamonds' Is a Gem», 1° maggio 2023: https://www.haaretz.com/life/television/2023-05-01/ty-article/.premium/citadel-fails-to-scale-the-heights-but-rough-diamonds-is-a-gem/00000187-d1db-d6a1-ad87-f9dbe7000000. Pure, La Famiglia dei diamanti risulta essere un «improbabile incrocio».
[8] Ha dichiarato Roten Shamir – che già aveva vissuto l'esperienza della regia di serie in lingue a lui sconosciute, come in Fauda per i dialoghi arabi – che dirigere utilizzando una lingua che non si conosce è sempre un esperimento interessante che “costringe” ad escludere il linguaggio e ad utilizzare invece – per ottenere una buona regia ed una buona recitazione – il sottotesto, la motivazione, le espressioni facciali, il linguaggio del corpo. Cfr. Spiro, cit.
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