
La Giunta è un film che parla della storia e tuttavia non vuole essere un film storico; un film che ci parla della politica e tuttavia non vuole essere un film politico; un film che vuole essere un tributo privatissimo al proprio genitore e finisce per essere un riconoscimento pubblico ad un gruppo largo di uomini e donne che, insieme a quel genitore, hanno fatto, giorno per giorno, la storia e la politica in una delle città più difficili e più affascinanti del nostro paese. Questo, se dovessi rispondere ad una domanda, è quanto, soprattutto, mi rimane del film di Alessandro Scippa, che racconta la storia del sindaco Valenzi e degli uomini e delle donne che con lui dettero vita a quella Giunta “rossa” che, per otto anni, attraverso sei successive compagini, incarnò la speranza di riscatto e di rinascita per Napoli e per il suo popolo.
La Giunta si basa essenzialmente sulla memoria di coloro che, di quell'esperienza, furono protagonisti o testimoni e che sfrutta non solo il vasto materiale d'archivio assicurato dalla Fondazione Valenzi e dall'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), l'Archivio Luce, le fotografie di Mimmo Jodice, Luciano Ferrara. Ma anche – ed è forse la parte più intrigante – le immagini dei filmini realizzati, con le cineprese dell'epoca che rimandano fotogrammi tremolanti e sfocati, da Antonio Scippa, padre del regista, o dalla moglie Floriana Mazzucca – intellettuale raffinata, femminista della prima ora – come pure, nei pochi momenti che la politica lasciava loro per dedicarsi alla famiglia ed al privato, dallo stesso Maurizio Valenzi e dai suoi figli.
Perché anche questa – o forse soprattutto questa – è la chiave per comprendere l'operazione di Alessandro Scippa e della produttrice del film, quella Antonella Di Nocera il cui padre era allora uno delle migliaia di operai dell'Italsider, l'acciaieria che, per alcuni momenti aveva fatto di Napoli anche una città industriale in cui era orgogliosamente presente un nucleo di quella mitica classe operaia che rappresentava, ancora in quegli anni, la spina dorsale del Sindacato e del Partito Comunista. Un'operazione tesa a raccontare la storia di una città e di un'esperienza politica, ma soprattutto la storia di uomini e donne che quell'esperienza concretamente incarnarono e che finirono per dover accettare di immergersi fino in fondo e senza un attimo di respiro nel tentativo di dare una nuova speranza ed un nuovo futuro a Napoli ed al suo popolo.
Lucia e Marco Valenzi, i figli del primo cittadino, rievocano lettere, confronti vibranti e situazioni difficili, le sfide da far tremare le vene e i polsi che Valenzi accettò e di cui confessò:
«Napoli rappresenta il compito più pesante che io abbia mai avuto nella mia vita politica. Anche quello più appassionante. Quello più profondo. E ci resterò legato come una delle cose più interessanti, ma anche più dolenti della mia vita».
«Io, mio padre lo vedevo solo la sera a casa e tante volte andavo a letto senza aspettarlo» racconta Federico Geremicca, oggi giornalista – il figlio di Andrea, storico dirigente e colonna del PCI partenopeo – che ricorda quel periodo come quello di un'esperienza totale, alla quale si doveva sacrificare il privato, la famiglia e gli affetti più cari in nome di qualcosa di superiore.
Napoli, come molti ormai ignorano, nel 1973 si era dovuta confrontare con un' epidemia di colera, quella del famigerato “vibrione”. E fu proprio in quel frangente che i napoletani dimostrarono che qualcosa stava cambiando. La gente faceva la fila per vaccinarsi, collaborava, si impegnava. E l'epidemia fu contenuta in breve tempo. Fu quello il segnale del cambiamento profondo che stava avvenendo e che nel 1975 portò Maurizio Valenzi a Palazzo San Giacomo.
In quegli anni, si respirava un'aria diversa. Napoli sembrava essere, come del resto tutta l'Italia, una città che chiedeva un futuro migliore, voleva uscire dagli stereotipi ingaggiando il meglio dei suoi intellettuali.
Sono molti i testimoni di quest'aria nuova cui Alessandro Scippa dà la parola: dal già ricordato Federico Geremicca ad Eleonora Puntillo, da Marco Demarco che la Giunta la seguiva per il quotidiano del PCI, l'Unità, al critico teatrale Giulio Baffi, ai fotografi Luciano Ferrara, Gianni Fiorito e Mimmo Jodice che, intonando “Avanti popolo alla riscossa”, i primi versi di quella “Bandiera Rossa” che ritornerà alla fine del film, cantata dalla madre del regista in una Piazza Plebiscito stracolma di popolo, ricorda come ci fosse «un contagioso entusiasmo, un'eccitazione indescrivibile, davvero c'era la speranza di poter costruire una città diversa, la voglia di una società più giusta, la sensazione di mutamenti importanti a portata di mano».
Furono, del resto, quelli gli anni in cui tutta l'Italia sembrò scegliere il nuovo. A Torino divenne sindaco Diego Novelli, mentre a Roma, nel 1976, fu eletto primo cottadino Giulio Carlo Argan, uno dei più raffinati intellettuali italiani, che, anche grazie alla tenacia di un geniale “funzionario di partito” come Luigi Petroselli, aprì la via ad una primavera culturale che ancora oggi si ricorda con stupita ammirazione. Fu Renato Nicolini, ad impersonare il geniale organizzatore culturale l'inventore di quell'estate romana che portò decine di migliaia di persone alle maratone cinematografiche nella Basilica di Massenzio, l'uomo che fece di Roma, grazie anche al gemellaggio con Parigi, uno dei principali poli culturali del Continente, e fu Adriano Cederna a ideare la rivoluzione che portò alla ricucitura dell'area archeologica, all'eliminazione della via del Foro Romano, che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro Repubblicano, e all'unione del Colosseo – sottratto all'indecorosa funzione di spartitraffico – all'Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò allora la continuità dell'area archeologica, liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio che, secondo il suo progetto, doveva connettersi senza soluzione di continuità con il grande parco archeologico dell'Appia Antica.
E a Napoli, dove era divenuto sindaco un uomo come Maurizio Valenzi, intellettuale, pittore che aveva scelto la politica come missione cui dedicare tutta la propria esistenza, divennero protagonisti della scena culturale il maestro Roberto De Simone con la sua Gatta Cenerentola e la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Eduardo e il suo “Natale in Casa Cupiello”, che il grande attore portò anche, in una testimonianza che resterà impressa in tutti quelli che, come il sottoscritto, poterono viverla, alla Festa nazionale dell'Unità che nel 1976 si svolse alla mostra d'Oltremare.
E questo clima Alessandro Scippa nel suo film cerca di rievocare per tutti quegli spettatori – e, se non altro per ragioni anagrafiche sono la stragrande maggioranza – che non lo hanno vissuto o non hanno mai avuto occasione di conoscerlo.
Fu quello davvero un momento felicissimo per Napoli e per il suo popolo, in cui, per la prima volta (e forse l'unica), in un'area degradata, rimessa a lucido dal lavoro volontario di migliaia di giovani comunisti di tutt'Italia, si misurarono culture ed esperienze di respiro internazionale. Eccellenze mai più ritrovate insieme, dagli attori del Berliner Ensemble ne “I fucili di madre Carrar” di Bertold Brecht, al Teatro Campesino con “La Carpa de los rasquachis”, l'austero e commovente “Io, Raffaele Viviani” di Achille Millo, Marina Pagano, Antonio Casagrande e Franco Acampora e la “passione” popolare e irresistibile di “Zappatore”, la più canonica delle sceneggiate napoletane, rimessa in scena dopo tanti anni da Luigi Teano per un pubblico di più di dodicimila spettatori entusiasti, il “teatro politico” con le parole e l'entusiasmo coinvolgente di Bruno Cirino nel suo indimenticabile “Rocco Scotellaro: vita scandalosa di un giovane poeta”, e l'austero “Oratorio profano” del Collettivo di Parma.
Fu, soprattutto la volta di un “incontro” costruito con le voci di giovani artisti napoletani distanti tra loro per strade e poetiche, dai giovanissimi Claudio Ascoli, Antonio Neiwiller, Luca De Fusco ai gruppi del Teatro Contro, Teatro Instabile, Teatro Oggetto, Chille de la balanza, ognuno per suo conto ma insieme, nei numerosi “microspettacoli” del progetto “Cane randagio”, creazione collettiva dedicata tutta all'impegno inquieto di Vladimir Majakovskij.
I piccoli napoletani scoprirono in quell'occasione i burattini del Teatro Popolare Cileno e riscoprirono, vedendoli forse per la prima volta, quelli più storicamente familiari, dei mitici Ciro Perna, Nunzio Zampello, Fratelli Corelli.
Quella festa fu conclusa da Enrico Berlinguer davanti ad una folla immensa, immersa in un mare di bandiere rosse e sembrò davvero rappresentare la possibilità che non solo Napoli, ma tutta l'Italia potesse cambiare. Illuminante la testimonianza che Aldo Schiavone ha rilasciato al Corriere del Mezzogiorno, lo scorso 3 febbraio:
«c'è tuttavia un aspetto, oggi quasi dimenticato, di quel periodo — e in particolare della sua prima parte, diciamo fino al 1979-80 — che il film mette bene in luce, sia pure con composta sobrietà. Ed è l'adesione massiccia — che portò in alcuni casi a una vera e propria mobilitazione intensa e inaspettata — degli intellettuali napoletani a favore della nuova amministrazione. E non solo delle figure più in vista sulla scena cittadina — professori molto noti, qualche artista di rilievo, scienziati di fama — ma soprattutto dell'intellettualità di massa proveniente dalla scuola, dalle professioni, dalla pubblica amministrazione, perfino dal mondo dei commerci e delle imprese. Fu un fenomeno che lo stesso partito comunista — che pure aveva lavorato molto negli anni precedenti in quegli ambienti — non aveva previsto. E che creò intorno alla nuova giunta, per un arco di tempo abbastanza lungo, la rete di protezione di un consenso attivo e partecipato — in alcuni casi di un autentico entusiasmo — di cui non si aveva memoria negli annali della città. Non credo di esagerare, ma fu davvero come se si fosse ricucito uno strappo di portata storica, che risaliva addirittura all'esito disastroso della rivoluzione del '99: e che intellettuali e popolo a Napoli si fossero finalmente ritrovati, sulla strada di un comune riscatto»”.
E tuttavia l'Amministrazione Valenzi rimase sempre una esperienza minoritaria che, in Consiglio Comunale, si resse solo grazie al sostegno, non dichiarato, ma evidente, di alcuni esponenti della Democrazia Cristiana e che costrinse il sindaco a rinnovare, per ben sei volte, la propria squadra di assessori. Lo stesso Valenzi dovette ricercare un delicatissimo equilibro tra la spinta al cambiamento che ne caratterizzava l'Amministrazione alla concreta realtà di una città in cui, per secoli, il popolo era stato abituato a considerare il rapporto con la politica come un rapporto di do ut des, mai modificato dalla logica borbonica delle “Tre F” (Feste, Farina e Forca) alle mitologiche scarpe regalate dal Comandante Lauro, una prima e una dopo il voto.
Il film non per caso illustra tali contraddizioni che la Giunta dovette affrontare facendo scorrere le immagini di un Valenzi che, intervenendo ad una trasmissione televisiva di una delle innumerevoli TV private che erano fiorite in quegli anni, ed in cui i cittadini gli ponevano liberamente delle domande, si trovò costretto a reagire, in modo vigoroso, cercando di evidenziare il nuovo corso, l'attenzione alla legalità contro clientelismi e intrallazzi, l'importanza delle regole contro il malcostume delle raccomandazioni a chi gli chiedeva di intervenire sulle graduatorie per gli alloggi popolari, alle inevitabili richieste di un lavoro qualunque sia e comunque ottenuto.
Ma la rivoluzione di Valenzi non si limitò alla rinascita culturale della Città. La Giunta iniziò davvero a cambiare le cose. Andrea Geremicca, già Segretario della Federazione del PCI, fu di quella amministrazione un assessore fondamentale, quello cui toccò la delega forse più strategica, quella all'edilizia, che gli costò due anni di vita sotto scorta.
Basterà ricordare come, nell'estate del 1976 in via Cinthia fu abbattuto a colpi di dinamite il primo palazzo abusivo: fino all'83 saranno 417 le costruzioni demolite, e 10mila gli alloggi confiscati. Fu anche modificato il progetto del nuovo centro direzionale, aumentando la quota destinata a residenze e servizi.
Col Programma straordinario, più di 3mila alloggi furono riqualificati, dal centro alla periferia, e 7.700 famiglie furono insediate fuori Napoli; quasi 2 milioni di metri quadrati furono sottratti alla speculazione edilizia e destinati a infrastrutture (scuole, centri sociali e commerciali, verde) metà al servizio della nuova edilizia, il resto per risanare i vecchi quartieri. Si trattava di dare un segnale di novità e occorreva farlo senza timore e senza pensare di poter tirare il fiato. Il risanamento, la riorganizzazione della città non convenivano a chi sul disordine aveva costruito la propria fortuna: alla camorra, agli speculatori, ai brigatisti che soffiavano sul fuoco della protesta. Prese forma così la campagna contro Monteruscello e contro la “deportazione” dei napoletani. E capitò anche che un famoso costruttore chiamasse la polizia per sgomberare i suoi palazzi, occupati dai terremotati: e che Andrea Geremicca, insieme ad altri assessori della Giunta, finissero in ospedale travolti dalle manganellate.
Ne La Giunta emergono anche altri protagonisti di quel poderoso sforzo di rinnovamento, come l'assessora Emma Maida, a cui andò l'incarico ai servizi sociali che, ricorda il film, in precedenza si chiamavano “assistenza”, e già in quel semplice cambio di denominazione c'è molto della vera e propria rivoluzione culturale che la Giunta Valenzi rappresentò per Napoli. Ancora, Benito Visca, che ereditò da Scippa la delega al Bilancio, Eugenio Donise, assessore al decentramento, Antonio Sodano, Bernardo Impegno. Fino all'allora giovane Antonio Bassolino che si troverà, negli anni seguenti, a ricoprire anch'esso, il ruolo di primo cittadino di Napoli e poi di Presidente della Regione, in un'altra stagione che avrebbe anch'essa la necessità di essere meglio raccontata.
Antonio Scippa, per parte sua, nelle Giunte Valenzi fu dapprima assessore al Bilancio e, come ricorda Lucia Valenzi, in quella fase il suo contributo fu davvero decisivo perché molti assessori, alcuni appena eletti consiglieri, non avevano precise competenze sugli aspetti finanziari e di bilancio e, complice la rigida esclusione dei comunisti da qualsiasi ruolo di governo locale, erano spesso del tutto privi di esperienze amministrative. Successivamente il padre del regista fu anche l'uomo che, come assessore al Traffico – una delega di fuoco a Napoli, che ne fece il nemico numero uno di intere legioni di commercianti e di un popolino abituato a gestire nel caos dei vicoli i propri traffici ai limiti e spesso otre la legalità – realizzò le prime corsie preferenziali e combatté una lotta durissima contro la sosta selvaggia, tanto che si ricorda come, per impedirla, decise la posa in opera dei famosi “paletti” lungo l strette viuzze dei quartieri spagnoli.
Poi, una notte del novembre del 1980, avvenne la tragedia.
Napoli e la Campania furono squassate da un terremoto che mise in ginocchio la città e gran parte della Campania interna, con effetti drammatici, per morti e distruzioni, in Irpinia. Il Presidente Pertini fu costretto, di fronte all'inerzia ed all'incapacità del Governo nazionale, che non sembrò in grado di reagire e che quando lo fece, lo fece male ed in ritardo, alla sua famosa reprimenda televisiva. Il Capo dello Stato, con la sua proverbiale partecipazione, emozionato, raccontò agli italiani quello che aveva potuto vedere con i suoi occhi: persone che avevano perso tutto, la corsa contro il tempo per tirar fuori i sepolti vivi dalle macerie, la mancanza del minimo indispensabile per assicurare la stessa sopravvivenza degli scampati, il dramma dei terremotati lasciati nelle tendopoli allestite alla meno peggio.
ll terremoto fu, per la Giunta Valenzi, lo spartiacque.
A Palazzo San Giacomo, a differenza che a Palazzo Chigi, le luci accese del Comune, quella notte furono un faro per molti napoletani che non si sentirono soli. E tuttavia sulle decisioni da prendere in quelle stanze si accesero, da subito, anche le mire feroci della camorra, le rivendicazioni deviate dei brigatisti, i nuovi progetti dei vecchi speculatori. Il connubio tra camorristi e terroristi fu drammatico: nell'aprile dell'81 fu rapito l'assessore regionale ai lavori pubblici Ciro Cirillo; a giugno, mentre la giunta Valenzi preparava il Piano per la ricostruzione, fu sequestrato e ferito l'assessore comunale Uberto Siola. «Svolgemmo persino con il nostro corpo il compito di mediazione tra interessi contrapposti. La cosa più assurda è che eravamo scortati dalla Digos che doveva difenderci dai brigatisti» ricorda, a proposito del clima politico che si era determinato nel maggio 1983, Osvaldo Cammarota.
Pochi mesi dopo, nel calore asfissiante del Ferragosto dell'83, finì l'esperienza di Valenzi. Ma questa è un'altra storia.
Noi rimaniamo, almeno per una sera, a respirare «quell'aria leggera che ci piglia pe' mano» (come canta Canio Loguercio, autore delle belle musiche insieme a Leandro Sorrentino), quell'aria di libertà di mezzo secolo fa, quell'aria leggera per cui hanno combattuto i militanti di allora e continuano a sognare quelli di oggi.
Mauro Sarrecchia
La Giunta
Anno: 2022
Regia: Alessandro Scippa
Sceneggiatura: Alessandro Scippa
Fotografia: Giancarlo Cardillo
Montaggio: Mauro Santini
Musiche: Canio Lo Guercio, Leandro Sorrentino
Attori: Renato Carpentieri
Produzione: Parallelo 41 di Antonella di Nocera, con il sostegno di Luce Cinecittà in collaborazione con AAMOD -Archivio Audiovisivo del Movimento operaio e democratico
Prima presentazione: Torino Film Festival, 2022, Sezione “Dei conflitti e delle idee”
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