
Nelle ultime settimane la notizia più eclatante per il mercato musicale è quella della conferma definitiva della superiorità commerciale dello streaming sui compact disc. E non potevo partire da qui per una serie di appunti sull’andamento delle vendite di questo settore.
In effetti la notizia non avrebbe dovuto fare tanto rumore perché era nell’aria e perché i rapporti degli anni passati indicavano chiaramente la linea di tendenza.
È importate precisare che la notizia riguarda l’industria americana. Il report della Recording Industry Association of America (Riia) riporta, per il 2014, ricavi a 1,85 miliardi di dollari per i Cd, mentre quelli da streaming sono stati 1,87 che passano dal 21% del 2013 al 27% del totale. La vendita dei supporti, in termini percentuali resta, però superiore cioè al 32%. Negli ultimi due anni il calo si registra anche nella musica scaricata (-8,7%) sui nostri dispositivi fissi e mobili. I ricavi da download restano i maggiori per il mercato USA con 2,58 miliardi di dollari.
Comunque tutto il mercato registra un arretramento dello 0,5% rispetto al 2013, da 7 a 6,97 miliardi di dollari; molto lontani dai tempi d’oro dell’industria quando nel 1999 raggiunse i 14,6 miliardi e i Cd dominavano la scena con 253 milioni di “pezzi” venduti.
Il 2014 ha visto confermare negli USA la crescita del vinile che addirittura sale da 210 a 314 milioni di dollari e cioè quasi un +50% [1].
Quando parliamo di streaming includiamo ricavi da sottoscrizione ad abbonamenti (vedi Spotify, Rhapsody e simili), dai servizi di streaming radio via SoundExchange (vedi Pandora, SiriusXM, e altre web radio) e altri servizi a richiesta (YouTube, Vevo, la versione gratuita di Spotify, e simili). In attesa di leggere i numeri del servizio di Apple, secondo l’associazione internazionale dei discografici (Ifpi) nel mondo sono circa 40 milioni gli abbonati allo streaming.
La disponibilità di decine di milioni di brani e la contemporanea crescita della copertura delle reti telefoniche nonché della capacità di banda sono i maggiori presupposti di questo passaggio verso i servizi forniti dai vari Spotify, Deezer, Pandora, Itunes Radio, Sirius XM, Beats, Napster e via discorrendo. Evidentemente anche una modalità che sopporta meglio il controllo dei diritti. Non è un caso che in Italia ad un anno dall’entrata in vigore del regolamento antipirateria di Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) secondo la Federazione Industria Musicale Italiana (Fimi) sono state bloccate 15 piattaforme illegali a livello globale, con oltre 5 milioni di link a brani musicali resi disponibili sia tramite download che streaming. Sempre secondo la Fimi nel 2014 la crescita dell’offerta legale online in Italia è aumentata del 23%.
Ma lo streaming negli USA e in altri paesi non è accettato da tutti gli artisti come la modalità per eccellenza di vendere le proprie opere. Tutto il catalogo dei Beatles non è disponibile sulle piattaforme di streaming. La rivolta di alcuni artisti contro i proprietari delle piattaforme è riassumibile in una scadente qualità dell’audio ma soprattutto nei compensi ridicoli che vengono pagati. Uno degli ultimi casi è quello la popstar americana Taylor Swift che con il suo 1989 in una sola settimana ha scalato tutta la classifica dei dischi più venduti nel 2014. L’artista in un’intervista al Wall Street Journal, ha dichiarato che lo streaming è uguale alla pirateria per la perdita di valore che genera alla musica.
Questa sua posizione ha avuto un risvolto pratico con il lancio della piattaforma Tidal di sua proprietà a cui hanno aderito di recente cantanti e gruppi del calibro di Beyoncé, Rihanna, Madonna, Coldplay, Daft Punk, Calvin Harris, Jack White. Le differenze stanno nella migliore qualità (simile a quella di un Cd), nel servizio solo a pagamento e soprattutto di un rapporto economico migliore per gli artisti con la scelta di dare la comproprietà ai testimonial con una quota del 3% della piattaforma.
Il problema vero è che nemmeno questa piattaforma potrà sostenere meglio gli artisti di media e piccola rilevanza – per diffusione e non per qualità artistica evidentemente – non essendoci nessuna formula che li avvantaggi in fase di crescita. Mi vengono in mente soluzioni simili a quelle prese per difendere la crescita delle aziende nei mercati che devono aprirsi ad una maggiore concorrenza. Per iniziare una discussione si potrebbe immaginare soluzioni come quella per cui nelle home page dei siti o delle app deve essere data ad artisti al loro esordio, piuttosto che le royalties siano decrescenti al crescere dei volumi venduti o che siano maggiori per il primo album pubblicato. Sono solo stimoli per pensare a rendere meno chiusa la musica verso i soliti noti, sostenuti pesantemente dalle rispettive etichette, e più equa nella distribuzione delle risorse.
Che la rivolta contro le piattaforme di streaming sia un fatto economico e relativa alle star lo dimostrano i continui aggiornamenti di catalogo dopo periodi di attesa per certi artisti o i ritardi temporali nelle disponibilità di brani e album sulle piattaforme per supportare al meglio la vendita del Cd come accaduto per Sono innocente di Vasco Rossi che non è arrivato in contemporanea su Spotify e Deezer.
Come ha scritto Sibilla: «si potrà evitare lo streaming, ma non per tutti, e non per molto ancora» [2]. Con buona pace della quasi totalità degli artisti che continueranno a raccogliere solo i resti di un business miliardario.
Ciro Ardiglione
[1] Joshua P. Friedlander, “News and Notes on 2014 RIAA Music Industry Shipment and Revenue Statistics”.
[2] Gianni Sibilla, “Non solo Taylor Swift: quali artisti (e perché) boicottano Spotify e lo streaming”, www.wired.it, 6 novembre 2014
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