“La musica popular è sostanzialmente morta”: intervista a Stefano Isidoro Bianchi

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La musica digitale e i suoi automi, gli algoritmi, le tendenze musicali, il ruolo del critico musicale. Insomma una breve ed efficace guida sullo stato dell’arte della musica quello che ci ha pazientemente raccontato Stefano Isidoro Bianchi (Cortona, 1961), il direttore della rivista Blow Up.
Stefano Isidoro BianchiBianchi ha pubblicato “Post Rock e oltre: introduzione alle musiche del nuovo millennio” (con Eddy Cilìa, Giunti 1999), “Prewar Folk: The Old, Weird America (1900-1940)” (Tuttle Edizioni 2007) e “Suicide. Il blues di New York City” (Tuttle Edizioni 2017). Ha curato “Rock e altre contaminazioni” (Tuttle Edizioni 2003) e “The Desert Island Records” (Tuttle Edizioni 2009). Nel 2004 ha partecipato al convegno internazionale “Nuovo e Utile”, i cui atti sono stati pubblicati nel volume “La creatività a più voci”, a cura di Annamaria Testa (Laterza, 2005).

Gli algoritmi sono sempre più sofisticati fino ad influenzare le scelte per non dire il pensiero di tutti noi. E quello di Spotify è uno di questi. Lei è un giornalista e critico musicale affermato, come si immagina il futuro di queste professioni nella musica digitalizzata e in un mondo debordante di playlist che, quasi sempre a mio parere, sono espressione della volontà di pochi dominanti del settore?
In realtà non sono un giornalista perché non sono iscritto all’Ordine, ma questo ha poca importanza. Onde evitare di dire e scrivere i soliti luoghi comuni, avverto te e i tuoi lettori che sarò un po’ didascalico e abbastanza noioso…
Quando ho fondato Blow Up (la fanzine nel 1995, la rivista nel 1997), i mondi e i tempi della musica erano molto diversi da oggi. Fino ai primi anni del nuovo secolo il giornalista (carta stampata, radio, televisione) aveva un grosso potere tra le mani: influenzava, indirizzava, alimentava e talvolta perfino generava i gusti del pubblico. Questo potere gli derivava dalla mediazione che faceva tra il prodotto-disco e il consumatore-pubblico; eccetto casi molto rari e circoscritti, tutto quello che aveva fortuna commerciale, mediatica e/o culturale nasceva dalle spinte e dagli incroci delle opinioni dei diversi media che agivano nel contesto di riferimento. Pur tra mille possibili distinguo, la struttura delle comunicazioni di massa rispondeva a una gerarchia di valori e di poteri abbastanza definiti e riconoscibili che erano, per l’appunto, la produzione, la comunicazione/mediazione e il consumo. La rivoluzione portata da Internet nei primi anni ’00 ha rimesso in discussione tutto, non solo il meccanismo strettamente commerciale ma anche e soprattutto gli attori, o meglio la regia, del processo che porta il prodotto da chi lo crea a chi lo consuma. Secondo la vulgata cara ai pasdaran della Rete, Internet avrebbe dato al consumatore, cioè a noi tutti, il potere decisionale sui propri gusti e sulle proprie scelte liberandolo dalle pastoie dei mediatori tradizionali, cioè i giornalisti e quant’altri agiscono nella filiera fino ad arrivare ai negozianti. Si tratta però di una convinzione profondamente errata; Internet ha semplicemente prosciugato una parte (consistente) del potere che avevano i vecchi mass media e l’ha passato ad altri media molto più sfuggenti, ambigui e difficilmente identificabili. Il meccanismo di base continua infatti a funzionare alla stessa maniera: c’è qualcuno che produce qualcosa e c’è qualcuno che paga per averlo e consumarlo. Ma laddove ‘prima’ era possibile conoscere e censire chi-faceva-cosa, con la Rete chi detiene il potere di mediazione è di molto difficile individuazione e definizione. Più direttamente: se prima Blow Up ‘lanciava’ un disco o un gruppo, era Blow Up che lo lanciava; il lettore-consumatore poteva anche sospettare che dietro a questo lancio ci fossero interessi economici poco chiari, ma aveva comunque un referente immediato in Blow Up, che si assumeva la responsabilità diretta di quanto scriveva e per questo era premiato o penalizzato attraverso il sacrosanto meccanismo del mercato. E lo stesso si poteva dire di qualunque altro bene di consumo culturale o meno, dai libri ai film, da una mostra da vedere a un evento a cui partecipare, dalla scelta di un albergo dove andare in vacanza a quella di un ristorante dove andare a cena fino all’acquisto di un tagliaerba, una stampante o quant’altro.
La possibilità di consumo gratuito di molti di questi beni (dischi, film, libri) e della loro mediazione (dai giornali alle agenzie di viaggi) rivoluziona dalla base tutto il funzionamento del meccanismo della comunicazione e del mercato. Nel momento in cui l’assunzione di responsabilità della mediazione, che comunque continua ad esistere come e più di prima, non è più riconoscibile né censibile, tutto finisce in una fitta coltre di nebbia: chi decide veramente quali playlist vengono inserite su Spotify? E sono tutte reali? Chi è che posta opinioni riguardo il miglior ristorante della zona? Sono tutte autentiche? Chi scrive nelle chat che quel tagliaerba è portentoso e quell’automobile straordinaria? Chi c’è realmente dietro quel blog capace di influenzare le scelte dei consumatori? Non si tratta di alimentare complottismi e dietrologie: in un universo in cui chiunque può scrivere qualunque cosa, anche in maniera anonima, senza rendere conto a nessuno, è possibile tutto e il contrario di tutto. Abbiamo esempi drammatici di questo meccanismo, per esempio, con la marea di stupidaggini e fake news che inondano le nostre vite.
Spesso facciamo l’errore di pensare che la democrazia sia la possibilità per chiunque di fare qualunque cosa in qualunque momento, mentre la democrazia è un insieme di norme che regolano questa possibilità secondo criteri stabiliti e condivisi da una comunità. Internet, così come è strutturato oggi, è tutto fuorché democratico. Magari è ‘libero’, ma non ‘democratico’; per esserlo dovrebbero esistere leggi molto esatte che regolino il nostro accesso in Rete evitando innanzi tutto l’anonimato, esattamente come sono leggi esatte e severe quelle che hanno permesso a me di registrare la testata Blow Up in tribunale e che controllano il mio operato senza che io possa mai essere anonimo. Laddove non ci sono regole c’è una libertà senza regole, e la libertà senza regole è da sempre il dominio del più forte, del più attrezzato, del più furbo e del più potente. Le regole però non piacciono al ‘popolo della Rete’, il quale preferisce avere una libertà senza regole piuttosto che una democrazia, perché la libertà senza regole dà a ognuno l’impressione di essere lui il più forte, il più attrezzato, il più furbo e il più potente. Nella realtà delle cose invece altro non è, lui e noi tutti, che un consumatore che ha in tasca soldi da spendere, soldi che prima dava, in piccola parte, a chi gli faceva una mediazione basata su conoscenze ed esperienza e adesso dà direttamente a chi gli vende qualcosa o a mediatori a lui del tutto sconosciuti, non di rado gli stessi che realizzano il prodotto che poi gli vendono. Quindi, per arrivare alla tua domanda, in questo tipo di mondo la professione giornalistica così-come-la-conoscevamo non serve più molto, forse non serve più a niente. La professionalità, la conoscenza e l’esperienza si sciolgono come neve al sole di fronte alla convinzione che ognuno di noi ha di scegliere da solo e secondo i propri gusti senza avere bisogno di nessuno che lo consigli. Quindi ci facciamo le nostre playlist e un sistema sconosciuto ci consiglia quali altri dischi potrebbero piacerci in base ai nostri gusti, guardiamo le playlist simili alle nostre e dentro di esse cerchiamo i dischi che non conosciamo, eccetera eccetera. Siamo in balìa di ciò che altri scelgono per noi a seconda di quello che loro vogliono che noi scegliamo: ma non lo sappiamo e questa ignoranza ci rende comunque felici. Diventiamo intellettualmente più poveri ma consumisticamente più felici: il perfetto cerchio di un mercato che si autoalimenta da solo senza possibilità di scampo e senza più gli intermediari che facevano da cuscinetto.

Con Eddy Cilìa ha pubblicato “Post Rock e oltre: introduzione alle musiche del nuovo millennio”. Senza voler sminuire la molteplicità delle declinazioni affrontate, a che punto siamo nel dopo rock? Quali si sono definitivamente affermate e chi sono le/i migliori rappresentanti?
Ancor prima che un genere ben definito, il post-rock fu un momento, un lasso di tempo collocabile all’incirca tra il ’93 e il ’99, durante il quale gli stili e le modalità di scrittura e di registrazione della musica vennero rimessi in discussione alla luce delle novità dell’elettronica ‘domestica’: a mio avviso possiamo considerarlo l’appendice, o meglio un rigurgito, di ciò che si era già verificato in epoca new wave, tra il ’77 e l’80. Con l’ingresso negli anni Duemila i gruppi più rilevanti del post-rock vennero meno con la repentina emersione della confusione indotta dalla rivoluzione di Internet e del download, quando dischi e musiche di ogni tipo e di ogni epoca divennero disponibili all’ascolto per chiunque e senza soluzione di continuità temporale e stilistica, e quando i nuovi software permisero a chiunque di registrare da solo senza più necessità di attrezzature e studi di registrazione.
La ‘retromania’ celebrata da Simon Reynolds non è altro che questo: tutti guardano al passato e nessuno riesce più a ipotizzare un futuro perché, tra molti altri motivi non meno rilevanti, si è interrotto drasticamente il processo storico che vedeva i trend susseguirsi uno all’altro attraverso il consolidato meccanismo dei ‘revival’ che periodicamente si ripresentavano al pubblico. Sin dalle origini il rock (ma in generale la musica popular) si è sempre alimentato attraverso i continui recuperi creativi delle epoche precedenti: il rockabilly che torna alla fine degli anni ’70, il sixties garage che riemerge col punk, la neopsichedelia degli anni ’80, il kraut rock che torna in auge negli anni ’90 insieme alla new wave e alla no wave, le oscurità e i dischi degli outsider che vengono ristampati e spingono a continue riscoperte, l’hard rock che si veste a nuovo come grunge, l’eterno brit-pop che ogni tot di anni rialza la testa, eccetera eccetera eccetera. Tutte queste onde-trend che si susseguivano e nel loro insieme davano vita all’apparato mitologico della musica giovanile oggi non esistono più ed è ben difficile che possano ripresentarsi nella stessa maniera proprio perché con l’ascolto immediato di qualunque cosa in qualunque momento a costo zero non ci sono più segreti da svelare e riscoperte da alimentare. Ecco perché siamo arrivati a un punto di non ritorno, ecco perché nessuna tendenza si è più affermata dopo il post-rock ed ecco perché, in buona sostanza, la musica popular, e quindi anche il rock, è sostanzialmente morta, almeno nella maniera in cui la conoscevamo.

Noi non siamo una rivista musicale, ma quando ce ne occupiamo proviamo a segnalare “esordienti”. Senza fermarci ad un genere musicale – e indicandocene i motivi – ne suggerirebbe qualcuno sia dentro che fuori i confini nazionali?
Consapevole che oggi le segnalazioni di gruppi ‘esordienti’ underground hanno molto meno senso rispetto al passato e che in quest’ambito è difficile trovare i nuovi U2, i nuovi REM, i nuovi Sonic Youth o i nuovi Smiths, ti faccio qualche nome relativamente nuovo che mi ha colpito nell’ultimo paio di anni. Per l’hip hop sperimentale i Clipping, per il cantautorato Ryley Walker, per l’indie rock gli Horse Lords e i Cavern of Anti-Matter (la nuova band dell’ex Stereolab Tim Gane), per l’avant rock By The Waterhole e infine i più grandi di tutti, gli Sleaford Mods, che superano qualunque definizione.

Lo scorso novembre su BLOW UP., la rivista che dirige, Pardo parlava della rinascita dell’indie-pop italiano facendola partire con “La Moda del Lento” dei Baustelle. Questo momento è ancora in continua crescita e chi lo rappresenta al meglio? E sul fronte del rock che ha avuto un grande momento con “WOW” dei Verdena, cosa succede? Chi consiglia di ascoltare/vedere?
Dal vivo non so dirti perché vedo pochi concerti. Sul fronte rock certamente i Todo Modo, che sono un gruppo veramente formidabile. Sull’indie-pop purtroppo sono la persona meno adatta a farti dei nomi, diciamo che dagli anni Zero a oggi ho amato molto i Baustelle e Riccardo Sinigallia, che ritengo autentici fuoriclasse.

Torniamo alla musica digitale. Sono cambiate molte cose dal suo arrivo e dall’esplosione della rete: la facilità di riproduzione in ogni senso, l’arrivo nel mercato dei cd prima, del download e poi dello streaming, la condivisione e alla diffusione sui social. Tutto ciò ha facilitato la nascita di nuove e altrimenti sconosciute realtà ma ora sembra tutto rientrare nell’alveo dei grandi marchi. Che ne pensa? E l’arrivo del digitale con la rete ha cambiato il musicista che, ad esempio, deve fare il manager della comunicazione verso il mercato e verso i fan?
Ancor prima e ancor più del mondo della comunicazione, la gratuità dell’accesso e della fruizione ha completamente ribaltato l’universo di chi la musica la realizza e la diffonde, dai musicisti alle etichette ai negozi. Il mondo ‘precedente’ ruotava tutto intorno alla creazione del disco, che era il focus dietro al quale si muoveva tutto il resto, non solo le vendite di per sé ma anche tutto l’indotto diretto e indiretto che era collegato ad esse. Quindi in primis il lavoro dei musicisti e dei dipendenti delle etichette discografiche che su di essi scommettevano i propri soldi, poi i tecnici di qualunque tipo che lavoravano negli studi di registrazione, le aziende di promozione, i giornali e le riviste, le agenzie che organizzavano i tour, i locali dove si suonava, i negozi dove si vendevano i dischi. Il crollo dello status di ‘oggetto da possedere’ di cui godeva il disco (caduto, naturalmente, per la possibilità di scaricarlo o comunque ascoltarlo senza pagare niente) ha portato al disfacimento di tutta la filiera. Eccetto i nomi più grossi e quindi focalizzandoci soprattutto sull’underground, oggi i musicisti non hanno più la loro fonte di reddito principale e quindi molti di loro sono costretti a suonare la propria musica come passatempo e non più come lavoro (non pochi hanno smesso del tutto), le etichette discografiche sono in buona misura fallite o si sono fortemente ridimensionate, di studi di registrazione ne sono rimasti tre o quattro, la promozione o è fatta in casa o è caduta nelle mani di personaggi che vendono musica come venderebbero pomodori e fichi secchi, dei giornali e delle riviste abbiamo già detto, i locali che organizzavano concerti sono in pesante crisi, i musicisti suonano letteralmente per due soldi e dei negozi di dischi è quasi inutile dire.
Tutto questo è nato, vale ripeterlo, dal crollo degli introiti economici che tenevano in vita tutto quanto, un crollo dovuto innanzi tutto dal download illegale che è dilagato nei primi anni del nuovo secolo. Le vendite dei file e le piattaforme di streaming come Spotify (dalle quali, come è noto, i musicisti ricevono solo autentiche briciole) non possono certo tenere in piedi quello stesso meccanismo economico che ha funzionato per quasi un secolo. Con uno scenario di questo tipo, purtroppo, c’è ben poco da pensare: i dischi, eccetto quelli di nomi vecchi o particolarmente grossi, non vengono più incisi con la speranza di poterne ricavare un guadagno e quindi scema anche l’implicita spinta a realizzare delle ‘opere d’arte’ capaci di coniugare le esigenze artistiche e quelle mercantili. In margine di ciò si aggiunge il fatto che il ruolo del produttore e dei tecnici degli studi di registrazione, che era essenziale alla realizzazione dei dischi (anche di quelli underground), è praticamente scomparso perché pochi possono permettersi di pagarli. Questi sono i motivi per cui, un paio di domande fa, ti dicevo che la musica popular è sostanzialmente morta: perché non esistono più quei presupposti essenziali che l’avevano fatta nascere e crescere lungo tutto il ‘900. Il mio non è pessimismo ma semplice realismo: qualunque tipo di mercato non regge se non c’è un sostrato economico che lo motiva, qualunque azienda non regge se i suoi prodotti non vengono acquistati, chiunque di noi non lavora e non investe soldi se il suo lavoro e i soldi che investe non rendono niente. Al di là della retorica e dei ricami che tanti hanno fatto su scemenze come la ‘musica liquida’ (un concetto idiota: non esiste musica liquida) o la ‘condivisione’ (un concetto odioso: tutti sono pronti a condividere il lavoro degli altri, mai il proprio), la faccenda è estremamente semplice: togli una bella fetta di guadagno a chi lavora e questi non lavorerà più come prima o si cercherà un altro lavoro. Piaccia o meno, l’underground è uscito a pezzi dalla rivoluzione di Internet; gli unici che sopravvivono sono i nomi molto grossi, le major molto grosse, gli organizzatori di concerti molto grossi, i negozi molto grossi.
Ovviamente esiste sempre una musica popular che viene seguita da ampie fasce di pubblico, però non ha niente a che fare con quella che esisteva fino al secolo scorso. Quella di oggi è un prodotto che nasce nei talent show televisivi o su YouTube e – caratteristica dirompente – non si esprime più attraverso il disco ma attraverso il video e tutto ciò che il video, per sue specifiche caratteristiche, è atto a comunicare: look, immagine, capacità comunicativa ed espressiva, attitudine provocatoria, eccetera eccetera. La musica non è più il piatto principale ma un contorno adeguato alla bisogna: ritornelli facilmente memorizzabili, voci educate secondo criteri classici (nei talent show) e oculatamente maleducate (in Rete), espressività banalmente provocatoria, nessuna ricerca strumentale, eccetera eccetera. Si è avverata la profezia che i Buggles fecero nel 1979: Video Killed The Radio Stars, ma stavolta sul serio.

Il mondo del rock al femminile in questi anni è ancora uno specchio della società e cioè un mondo dove la discriminazione è diffusa? La loro musica è ancora sottostimata e il cammino verso il successo è lastricato di ostacoli che nulla hanno a che vedere con le qualità artistiche?
In tutta onestà credo che nel mondo del rock le donne siano sempre state una presenza forte e importante sia come musiciste che come ascoltatrici, soprattutto a partire dagli anni ‘60. Se c’è un universo in cui la discriminazione di genere, razziale e religiosa è sempre stata marginale e marginalizzata, questo è quello della musica rock e popular in generale. Il rock non avrà forse avuto altri grandi meriti ma almeno quello di rimuovere gli steccati di sesso, colore e credo, be’, quello certamente sì.
Ciro Ardiglione

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