La nave dolce di Daniele Vicari: un sogno che si infrange

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L'8 agosto 1991 una grossa nave mercantile, la Vlora, partita da Durazzo il giorno avanti, arriva nel porto di Bari. Non arriva con un carico di merce, bensì di donne, ragazzi, uomini, bambini; circa ventimila corpi, provati da un lungo e scomodo viaggio, sudati, affamati, stanchi, eppure in qualche modo felici, anzi, di più, inequivocabilmente entusiasti di aver finalmente messo piede nel nostro paese.


Bari. Lo sbarco della nel porto l'8 agosto 1991. Foto Vittorio Arcieri

Un entusiasmo che nei giorni a seguire sarà destinato ad affievolirsi e poi spegnersi per lasciare spazio ad una delusione enorme: avrà luogo infatti quello che la storiografia ufficiale ha definito come il primo del nostro paese, conseguente ad una pessima gestione di quella che fu comunque, nessuno lo vuol negare, un' da affrontare. Purtroppo però non sempre gli errori insegnano qualcosa, spesso eventi come quello della Vlora vengono semplicemente rimossi, dimenticati o, peggio, rischiano di venire esaminati da una prospettiva sbagliata, mancando completamente la paradigmaticità della loro fenomenologia.
E proprio per scampare a tale pericolo ci viene in aiuto il bellissimo – necessario, imperdibile oserei dire – documentario di . Non un film di denuncia, come egli stesso ha affermato, bensì un'operazione – da analizzare contestualmente a – per capire quello che è successo e sta succedendo nel nostro paese; un paese in cui – come appunto nei noti fatti raccontati in Diaz – complesse problematiche di ordine sociale (appunto l'arrivo di tanti immigrati o anche gli effetti della globalizzazione, con tutto ciò che ne consegue a livello appunto sociale) anziché venire analizzate, comprese ed affrontate con gli strumenti della politica intesa nel suo senso più ampio, ossia con un dibattito sociale che coinvolga ogni singolo cittadino, vengono liquidate come se fossero semplici e banali questioni di e quindi “risolte” tramite  un mero, brutale e repressivo esercizio delle forze armate. Ma che sia chiaro, non si sta qui facendo il processo alle forze dell'ordine, dalle quali, in definitiva, essendo dispositivi preposti a determinati compiti, ossia controllare l'ordine pubblico, non ci si può certo aspettare la capacità di risolvere questioni che richiedono di essere affrontate in altri luoghi, con ben altri metodi, bensì si intende sostenere che sostituire determinati dispositivi di controllo all'analisi e teorizzazione politica, non può che far male, non può che essere una soluzione del tutto antidemocratica. Non ci si può limitare a reprimere, bisogna domandarsi perché avvengono dei fatti e cercare di risolverli soprattutto nell'interesse di chi, mettendoli in atto, ci sta dicendo – o almeno tenta disperatamente di dirci – qualche cosa: cosa ci dicono gli immigrati che sbarcano nel nostro paese? Cosa ci hanno detto i manifestanti a Genova nel 2001? Respingere e zittire la loro voce senza ascoltarla è un metodo indegno di un paese civile. Anche perché, se nell'ormai lontano 1991 gli stranieri presenti nel nostro paese erano all'incirca 300.000 ed oggi invece sono all'incirca quattro milioni e mezzo, significa che il metodo del respingimento coatto non funziona. E sarebbe una perdita per tutti se funzionasse perché il fenomeno delle migrazioni dei popoli caratterizza da sempre la nostra storia e rimane l'incontestabile legittima scelta di ogni vivente che lotta per migliorare la propria esistenza. Partire da qui, da quella che sembrerebbe una banalità fin troppo ovvia, ossia dalla speranza che le nostre coste offrono agli sguardi di tanti disperati che ci guardano come ad un miraggio, nonché dall'indiscusso ruolo di faro culturale che ci portiamo dietro da secoli, è importante perché significa rendersi conto che il fenomeno dell' non è una statistica numerica da studiare in astratto, ma comprende sogni, speranze, legittima possibilità di cambiamento delle condizioni di vita di migliaia di esseri umani.


di Daniele Vicari. Foto di Nicola Amato

Questo per me è centrale: rimettere la “filosofia” con i piedi per terra: altrimenti le vite individuali sono solo numeri e funzioni, i popoli soltanto masse indistinte e i fatti storici semplicemente accadimenti da analizzare”, dichiara Vicari nelle sue note di regia. E ci tiene più che mai a restituire umanità e dignità a queste persone, singoli protagonisti, la cui identità viene spesso appiattita, quando non del tutto smarrita, nella generale astrattezza del fenomeno “immigrazione”. Aggiunge poi che se La nave dolce ha un significato, dalla prospettiva proprio dei protagonisti reali, non può che essere quello del , il sogno di un paese, il nostro, che nel loro immaginario rappresentava qualcosa di ben preciso, ma che poi invece nella dura realtà dei fatti si è rivelato non all'altezza delle aspettative di quel giorno.
La domanda che da spettatrice mi pongo allora non può, a questo punto, che essere una: è riuscito Vicari a raccontarci e trasmettere tutte queste problematiche ne La nave dolce? Io dico di sì, senza esitazione e, a questo punto, entrando proprio nell'analisi formale del film, vediamo anche come. Partendo da una ricerca e recupero di oltre cento ore di filmati di repertorio – recuperati non solo presso gli istituti ed archivi di Stato del nostro paese, ma anche di quelli in – è riuscito a selezionare ed isolare tutti i momenti e le scene più adatte a raccontare e a farsi immagini esplicative di quanto, contestualmente, in un montaggio alternato, alcuni singoli intervistati – protagonisti del memorabile viaggio della Vlora (trovati e scelti grazie ad un lavoro di faticosa ricerca, domande, telefonate, passaparola ecc.) posizionati su un neutrale ed unanimamente condiviso sfondo bianco – vanno gradualmente rievocando di quel memorabile giorno.
L'inquadratura degli intervistati parte dal particolare degli occhi, o della bocca – rettangoli  ritagliati sullo schermo – per allargarsi gradualmente all'intera figura, mentre, al contrario, le immagini di repertorio cominciano proprio dai totali per andare a stringersi sui singoli volti, mani, sguardi o altri particolari dei ventimila sbarcati a Bari, in un procedimento che è sempre teso a dare forza e vigore al singolo, a restituire individualità a quella che è inizialmente percepita e vista come una massa indistinta.


La nave dolce di Daniele Vicari. Foto di Nicola Amato

Ogni intervistato rievoca la propria personale esperienza e si fa anche strategemma narrativo per far procedere gradualmente il racconto; un racconto che “supera lo schema narrativo in tre atti, prendendo a prestito strutture più ampie della tragedia e della narrativa classica”, dice Vicari. In tutto diciassette persone che, a vario titolo, furono protagonisti di quella memorabile giornata, non solo alcuni dei ventimila Albanesi che poi, ognuno a suo modo, sono riusciti a costruirsi una vita in Italia, ma anche rappresentanti ufficiali del nostro paese, quali il sindaco di Bari, il giovane assessore alla sanità, i custodi dello stadio della Vittoria che furono praticamente rinchiusi al suo interno per cinque giorni insieme agli Albanesi e poi altre svariate figure pubbliche dell'epoca. Le immagini di repertorio sono toccanti e quanto mai rese vive – non già come fotogrammi sbiaditi dalla memoria – dal racconto diretto dei singoli protagonisti, dalla loro voce incrinata e rotta dall'emozione, dal loro sguardo che si fa lucido, andando a realizzare proprio quella profezia di Zavattini secondo cui negli archivi ci sarebbero appunto immagini impazienti e desiderose di prendere vita, come ricorda ancora Vicari. E direi che vita la prendono eccome quelle immagini, tanto che guardandole danno come l'impressione che non siano affatto passati più di vent'anni da quella mattina di agosto, ma sembra quasi, al contrario, di essere lì, a respirare l'afa ed il disagio di quei corpi, così come anche la non disgiunta speranza, l'entusiasmo e la consapevolezza di aver appena compiuto un'impresa eccezionale della quale, se gli esiti appaiono incerti – e Kledi Kadiu, ormai noto ballerino conosciuto al grande pubblico, che fu protagonista della Vlora, ripete più volte “avevamo paura dell'ignoto” – appare subito evidente l'unicità, peculiarità e grandiosità . E ci si indegna e stupisce della miopia – di ieri, come di oggi – di un governo incapace di gestire e comprendere il fenomeno entro più ampie questioni di natura appunto civile e sociale, ma anche ci si commuove per la solidarietà mostrata dai singoli, così come dal sindaco di Bari (contrario al rinchiudere ventimila persone dentro uno stadio – senza servizi igienici adeguati, con tutte le difficoltà legate proprio alla contingenza di emergenze vitali quali la distribuzione di cibo ed acqua – ed invece propenso ad erigere una tendopoli per meglio portare i soccorsi e per questo malauguratamente pure bacchettato da un intransigente Cossiga, come si vedrà), una solidarietà che purtroppo oggi, anche a causa di una pessima stampa che dipinge lo straniero come un invasore, sta venendo un pochino a mancare.
La nave dolcedolce non solo perché quando fu presa d'assalto a Durazzo dagli Albanesi, in un moto spontaneo e non organizzato, conteneva riserve di zucchero, l'unico alimento di cui durante il viaggio si sono nutriti i “viaggiatori”, ma soprattutto dolce perché simbolicamente rappresentava il traghetto verso una vita migliore –  si impone nella memoria grazie alla forza della sua veridicità ed al contempo perché capace di elevarsi a simbolo e paradigma di qualcosa di più ampio, di questioni e dinamiche universali più che mai attuali  ed urgenti.

Rita Ciatti

Scheda del film

Titolo:  La nave dolce – Produzione:  Indigo Film – Apulia Film Commission –   Genere: documentario  – Durata: 90′ – Regia: Daniele Vicari – Soggetto: Antonella Gaeta, Daniele Vicari –  Sceneggiatura: Antonella Gaeta, Benni Atria, Daniele Vicari – Protagonisti Principali (in ordine di apparizione): Eva Karafili, Agron Sula, Halim Milaqi, Kledi Kadiu, Robert Budina ecc. –  Fotografia: Gherardo Gossi – Suono in presa diretta:  Valentino Gianni, Gianluca Costamagna –  Montaggio: Benni Atria – Musica: Teho Teardo – Distribuzione: Microcinema Distribuzione.

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