
Il 7 Gennaio scorso il Parlamento ha votato, in una seduta mozzafiato, per la nascita del nuovo governo di sinistra Sánchez-Iglesias con 166 voti favorevoli e 165 contrari [1]. Si rischiava di dover tornare alle urne per l'ennesima volta in Spagna, ma alla fine un accordo tra il Partito socialista (PSOE) e Unidas Podemos (UP) è stato trovato e poi, in sede parlamentare, l'appoggio del Partido Nacionalista Vasco (PNV), dei nazionalisti galiziani del BNG, i regionalisti valenziani di Compromís, quelli di Nueva Canarias e il deputato della lista elettorale ¡Teruel Existe! E poi soprattutto c'è voluta l'astensione degli indipendentisti catalani di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) che hanno accettato dopo che il Psoe ha aperto ad una trattativa tra Madrid e Barcellona utile a redimere le questioni politiche collegate al separatismo catalano.

Quindi un governo con una maggioranza flebile e in un contesto politico che non è tradizionalmente abituato al multipartitismo ampio e alle coalizioni governative, l'ultima delle quali è stata negli anni '30 del secolo scorso. Per di più con una grave crisi istituzionale che si protrae dal momento del referendum in Catalogna.
Il nuovo governo, oltre al premier, è composto da ventidue ministri, di cui undici sono donne che sono anche a capo dei dicasteri degli Esteri, della Difesa e dell'Industria commercio e turismo. Una delle quattro vicepresidenze è quella del leader di UP, Pablo Iglesias con il ministero dei Diritti sociali e dell'Agenda 2030 (quella ONU per lo sviluppo sostenibile) e avrà al suo fianco altri quattro colleghi di partito, nessuno nei ministeri chiave. La compagine governativa ha una certa vocazione economica, per buona parte più vicina all'ortodossia del mercato, grazie al fatto che, oltre dicasteri “economici”, c'è da dire che Arancha González, a capo della diplomazia spagnola, ha una forte impronta economica.
La più importante sfida anche perché ne dipendono le sorti dell'esecutivo di Pedro Sánchez è il futuro della Catalogna. Il nuovo esecutivo, con il PSOE in testa, avvierà i un tavolo di confronto con la Generalitat, puntando ad un allargamento dell'autonomia attraverso una riforma dello statuto della Catalogna. Ma ERC vuole andare oltre ponendosi come traguardo un nuovo referendum per l'autodeterminazione. Questo è allo stato delle cose fuori della portata del governo perché necessita di una riforma costituzionale che per passare avrebbe bisogno dei voti dell'opposizione e quindi del Partito popolare che non è nemmeno disponibile ad accettare un ampliamento dell'autonomia catalana. Comunque vada saranno le attività politiche e non i Tribunali ad essere protagonisti tra le parti, almeno fino a che il governo resterà in piedi.
Ieri alcune migliaia di sostenitori dell'estrema destra, radunati in particolare sotto il partito Vox, sono scesi in piazze in alcune città per protestare contro il nuovo governo “nelle mani dei separatisti“.
Secondo Steve Forti e Mario Russo Spena oltre alla destra sono in tanti ad osteggiare questo governo, «gli intransigenti indipendentisti rappresentanti da Puigdemont e i settori macroniani dell'establishment mediatico. C'è ovviamente anche la Confindustria spagnola che ha reagito con “profonda preoccupazione” all'accordo di governo Psoe/Unidas Podemos considerando che le misure proposte nel campo del lavoro e dell'economia sono “più vicine al populismo che all'ortodossia economica” e “avranno un impatto molto negativo” sull'economia. E non manca, ça va sans dire, pure la Chiesa cattolica che sta invitando a “pregare per il futuro della Spagna” proprio come ai vecchi tempi, mentre il presidente della Conferenza Episcopale spagnola, Ricardo Blázquez, ha espresso una profonda “inquietudine”. Per quanto non vi sia alcun riferimento ad una revisione degli accordi tra lo Stato e la Chiesa del 1979, nel programma di governo si parla di una legge sull'eutanasia e del ridimensionamento dell'insegnamento della religione nelle scuole, con il voto in religione che non farebbe più media» [2].
Il nuovo esecutivo dovrà trovare le risorse per alcuni impegni che intende portare avanti e per questo si parla un'imposta minima del 15% sulle società e un 18% per gli istituti finanziari e le società di idrocarburi e di aumenti di due punti percentuali dell'imposta sui redditi delle persone fisiche con entrate oltre i 130.000 euro e fino a quattro punti per coloro che superano i 300.000 euro. È in programma una riforma vasta anche delle pensioni da una parte per garantirne la sostenibilità eliminando alcune spese improprie di previdenza sociale e riducendo i bonus di assunzione e dall'altra migliorare la rivalutazione delle pensioni stesso, mettendo mano alla riforma della destra degli anni passati.
Sul fronte del lavoro, l'obiettivo primario è quello di scardinare la riforma approvata qualche anno fa dal governo Rajoy e l'approvazione di un nuovo Statuto dei lavoratori. Impegno anche sul tema clima attraverso la transizione energetica per ridurre le emissioni di gas a effetto serra portando al 100% le fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica nel 2050 [3].
Pasquale Esposito
[1] Per una descrizione su quanto accaduto nella votazione per il nuovo governo cfr. Natalia Junquera e Elsa García de Blas, “Sánchez afronta la investidura más ajustada de la democracia”, https://elpais.com/politica/2020/01/06/actualidad/1578340976_654693.html?rel=mas, 7 gennaio 2020
[2] Steve Forti e Mario Russo Spena, “Spagna, dalla destra xenofoba alla Chiesa: ecco i nemici del governo Sánchez/Iglesias”, http://temi.repubblica.it/micromega-online/spagna-dalla-destra-xenofoba-alla-chiesa-ecco-i-nemici-del-governo-sancheziglesias/, 7 gennaio 2020
[3] José Manuel Romero, “Los 10 retos más difíciles del futuro Gobierno”, https://elpais.com/politica/2020/01/07/actualidad/1578408371_510915.html, 7 gennaio 2020
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