La tradizione alimentare contadina nell’Abruzzo interno: i cibi nella còscənə.

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Alla fine ci siamo arresi e non abbiamo trovato un termine italiano che traducesse “còscənə”. Nell’evoluzione del dialetto la “e” di còscənə è scritta come “e” rovesciata e non la si pronuncia.

Potrebbe trattarsi di una di quelle parole dialettali molto in uso nell’Abruzzo interno che non sono traducibili in modo preciso. Ne abbiamo qualche traccia in una pubblicazione del 1942 di Zeffiro A. De Nino-Di Loreto quando scrive “La còscene, la conch’ i lla sparre” (La còscene, la conca e la sparrə)  e successivamente quando descrive il recipiente: «Còscene = rende l’idea di còfano e còfana. È un recipiente da cercine (sparra) in legno di faggio, perfettamente conforme ad un ampio tamburo senza fondo: Le contadine ci trasportano perfino i loro piccoli» [1].

foto in bianco e nero di donne sedute
Còscənə con frutta e cesti. Foto Collezione Privata Consuelo Bracaglia
la còscənə

Contenitore, questo, molto usato, a nostra memoria, dall’immediato primo dopoguerra fino agli anni ’70 dalle donne contadine per i loro compiti. Aveva la forma circolare con bordi alti e fondo in legno che fungeva da contenitore generico da porre sul capo.
Per comprendere meglio lo si può contrapporre alla bisaccia che invece era l’accessorio principe per i contadini di sesso maschile. La còscənə si posizionava sul capo utilizzando anche la sparr, un pezzo di tessuto intrecciato a formare un cercine che aveva la funzione di ammortizzare e stabilizzare il peso per renderlo trasportabile agevolmente. L’operazione richiedeva comunque tanta perizia ed equilibrio che erano propri di ogni contadina che volesse definirsi tale.

Induce tenerezza la riflessione sull’uso che ne facevano le mamme-contadine-massaie. Dovendo anche

Còscənə e cesti sul capo Così ci si muoveva
Còscənə e cesti sul capo Così ci si muoveva. Foto Collezione Privata Consuelo Bracaglia

lavorare in campagna senza abbandonare gli obblighi principali, usavano il recipiente per portare i loro pargoli nei campi. Questa era un’esperienza ambita per i fanciulli ed era anche motivo di orgoglio per le mamme potersi “esibire” in valenza portando anche due bimbi nella stessa còscənə, surrogato delle costose carrozzine per neonati. Una volta raggiunto il terreno da lavorare, la pseudo culla era posizionata all’ombra (alla “murijenə”) della casetta di campagna, si usava porre una pietra da una parte sotto al bordo in modo che potesse renderla instabile per poter continuare a cullare i piccoli.

Lavori di campagna. Granturco. Foto archivio privato Oreste De Dominicis
foto in bianco e nero di un contadino
Al lavoro in campagna. Foto archivio privato Oreste De Dominicis

L’aspetto però che anima i ricordi con maggior voluttà gastronomica è la sua funzione di trasporto di alimenti e vino. Probabilmente perché le carenze del periodo rendevano ambito il potersi cibare senza scrupoli e la cosa, legata al lavoro dei campi, ne giustificava l’abbondanza. Un professionista dei giorni nostri, a quei tempi studente alle elementari, ricorda ad occhi lucidi, quando, ultimate le lezioni, era particolarmente contento di raggiungere i genitori nei campi per potersi cibare di un piatto di baccalà e peperoni. Pietanza della quale era ed è particolarmente goloso.

Il baccalà rappresentava, con sarde ed acciughe sotto sale, la componente alimentare marina più probabile. Allora il pescato fresco raggiungeva l’interno solo in particolarissime condizioni di festa e i pesci sotto sale, considerati un piatto povero, avevano la loro importanza per la dieta di lavoratori bisognosi di calorie dirette ed indotte dalla sapidità degli alimenti che obbligavano ad accompagnarci vino in quantità. Per rendere il più completo possibile il discorso, i cibi nella còscənə erano quelli consentiti dall’allevamento e dalle coltivazioni di campi e orti. Quindi legumi, verdure e cereali, ma anche polli, conigli, e parti del maiale allevati per il fabbisogno di ogni famiglia che, come per il fiasco di vino proveniente dalle cantine di cui ogni abitazione era dotato, rappresentavano le basi di quella economia rurale e “circolare” di cui oggi si rincorre la riproposizione. Grano e granturco, tra i cereali per pasta nelle varie proposizioni anche quindi i tagliolini… tagliuline, pllastr pane e vin vaje a purtà a magnè ncollevegliene! [2]. Componimento interessante e descrittivo della stessa raccolta citata in precedenza, nel quale si immaginano i pensieri di una contadina nel mentre porta da mangiare al suo uomo nei campi. La donna si autodetermina (ne potete ascoltare l’audio qui di seguito ), mentre cammina, canticchia e contemporaneamente …fa la calzetta, a tornare indietro e lasciare il suo “Peppine” digiuno se non le si fosse fatto incontro per liberarla dal peso. Si tratta di uno spaccato di vita contadina e di determinazione femminile. Quella che realmente governava la casa. Versi che lasciano immaginare colori e situazioni ma anche comportamenti e rapporti di famiglia come in un filmato d’epoca che illumina e scandisce l’orologio della vita per quelle comunità.

Anche la classica polenta arricchiva il menù ospitato dalla còscənə, come pure ortaggi, fagioli ( usati anche per …maritare-rendere più appetitosa- la minestra che altrimenti sarebbe rimasta…zitella!), peperoni, patate, fave, fagiolini, zucchine che costituivano la base di tante pietanze. Alcune di esse avevano acquisito un nome proprio e quindi una loro identità precisa, pur essendo di semplicissima preparazione: uova al sugo con rametto ben evidente di profumatissimo basilico era lu sciuscioll. Una sostanziosa pietanza che aiutava anche a riempire per le quantità di pane che vi si inzuppavano. Lu sciuscioll aveva una variante nella preparazione del sugo di pomodoro che poteva essere arricchita da abbondanti peperoni in pezzi. In questo caso il pane, ricordiamo che si panificava in casa una volta alla settimana, era preferibilmente raffermo. Se ne facevano strati, anche tre o quattro, che venivano conditi con uova e peperoni al sugo tra l’uno e l’altro, lasciati stufare e riproposti, dopo che il pane si era inzuppato per bene, anche a distanza di ore dalla loro preparazione. E poi fagioli fritti con patate, patate e peperoni, peperoni e uova, fuojə e fagioli (dove per foglie si intende soprattutto cavoli o cime di rape), minestre di fuojə e patan, rigatoni al sugo di pomodoro, fave e guanciale ( ucclar’ in dialetto da vocc’= bocca), baccalà in umido o arrosto con peperoni, anche questi arrosto o in padella, e poi un piatto a base di granturco e sarda fritta che è diventato il famoso Pizz e fuoje n’chè la sard’ e lu peperon n’grillat’ sulla parte costiera. Una sorta di pasticcio a base di farina di granturco tipo polenta un poco più lenta, alla quale si amalgamano le verdure novelle del periodo opportunamente insaporite. Il pasticcio si sposa benissimo con sarda fritta intera e poi sfilettata e peperone dolce, turgido e croccante per essere stato fritto anch’esso dopo essiccatura all’aria e come la sarda usato per arricchire di sapidità la pietanza.
A volte poteva capitare di dover attendere la panificazione della settimana successiva per avere del pane ed allora ecco che lo si sostituiva con lu pzzill’ asciojə, una specie di frittellone a base di farina (di grano o granturco) senza lievito fritto nell’olio in una padella di ferro esternamente di un colore nero vivo. Sostituiva il pane e si accompagnava a tocchi di prosciutto resi di dimensioni più piccole dal coltello sempre in dotazione al contadino.
Alcuni gradivano molto rifocillarsi anche con gli avanzi della “ ingorda” (la n’gord’) detta così per essere teglia ricca di peperoni, melanzane, pomodori, patate e zucchine, ripiene o gratinate, cucinate al forno e servite ben rosolate. Erano appetitosissime anche il giorno dopo e per questo si cucinavano in quantità tali da finire nella còscənə per essere gustate anche il giorno dopo.

I profumi di questi piatti erano destinati a sfumare poiché venivano consumati molte ore dopo la preparazione. Malgrado il profumo fosse scemato, chi li consumava non li disdegnava. Il condimento delle lunghe ore di fatica era insostituibile, ma forse il profumo che accompagnava quelle pietanze era ben noto e riproposto… a mente, mentre le si degustava. Un odore magnifico, come fosse un suono piacevole di un’orchestra jazz, dove la base era comune a tutte le cucine, ma le improvvisazioni singole e collettive delle massaie erano diverse e riconoscibili a seconda delle condizioni dei locali e della sapienza nelle preparazioni. Le influenze maggiori pervenivano dalle attività delle cucine con le pietanze in cottura. La fragranza del pane appena cotto era una costante tra gli odori ad essere notati. Se la pignatta era sul fuoco con i fagioli borbottanti nella loro acqua di cottura, non era difficile individuare dal profumo quale sarebbe stato il piatto del giorno. Il tiraggio del camino poteva giocare un ruolo determinante. Se era efficiente, la cosa conferiva sentori di gradevoli fumè, se invece per una qualche ragione la cucina si trasformava in affumicatoio era un calvario conviverci …un calvario obbligatorio per occhi e pancia che determinava l’esito infausto dell’assolo culinario predisposto dalla massaia seppur molto abile.

Una costante nei profumi era rappresentata dalla presenza in cucina di aglio rosso ed altre spezie, usato in generosa quantità nella preparazione di fegatazzi ed altri salumi per l’uccisione del maiale i cui prodotti abitualmente penzolavano da pertiche destinate alla loro stagionatura. Del resto, con i fagioli e la vite, l’aglio rosso rappresenta un’eccellenza nelle coltivazioni in questi luoghi.

Chi ha vissuto quei periodi non ha alcuna fatica a rammentare quei profumi come pure il lavoro e sudore per i raccolti che significavano sopravvivenza. Una gestione dell’agroalimentare che potrebbero essere la dimostrazione di quanto antico fosse il concetto dell’attuale biodinamicità per le produzione più ricercate. Quel ciclo naturale cioè, in cui nulla si spreca (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma – Antoine-Laurent de Lavoisier -1789) ma che prende dalla terra ed alla terra restituisce nell’alternanza delle coltivazioni in sintonia con stagioni e necessità sapienti dei cicli produttivi.

Ebbene si! Mi è sopraggiunto un gran appetito. Sono consapevole però che non riuscirò a calmarlo con nulla di tutto quanto ricordato nelle righe precedenti.

Emidio Maria Di Loreto

[1] Zeffiro A. De Nino-Di Loreto La Schiaravent d’Sentemiente.. Ristampa 1942 dedicata dall’autore ”… all’insigne filologo, folklorista e archeologo abruzzese di Pratola Peligna, Antonio De Nino, parente dell’autore in linea materna”. La raccolta è da lui definita “ Strenna dialettale paesana ristampata riveduta ed ampliata con varianti in dialetto ed in pulito”. Pag.27 La còscene, la conch….i lla sparre.
[2] Zeffiro A. De Nino-Di Loreto ibidem. Pag. 43 “ Ncollevegliene”.

La foto di copertina Lavori di campagna con i fagioli  è dell’Archivio privato Oreste De Dominicis.

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