
Oltre che per la commercializzazione dell’uva appena vendemmiata, del mosto e, molto più raramente di vino pronto alla beva, il prodotto della coltivazione della vite era di utilizzo per l’uso quotidiano in famiglia. Quasi ogni agricoltore aveva la sua cantina con tutto l’occorrente per la produzione di vino e l’alternarsi ciclico delle stagioni era scandito con rigore inappellabile dai necessari lavori nei campi prima, e nella cantina poi, per la preparazione e la lavorazione del prodotto della vendemmia.

Andava dissodato il terreno, anche tra le viti e non solo lungo i filari, bisognava procedere alla potatura che si realizzava quando i filari risultavano completamente privi di foglie, si dovevano prevedere le inzolfate che in una stagione potevano o dovevano essere ripetute almeno tre o quattro volte. Operazione questa laboriosa e ripetitiva che consisteva, con idoneo strumento a spruzzo, nel cospargere con una soluzione di solfato di rame, le viti al fine di preservarle dai parassiti.
I lavori sulle piante iniziavano con il liberarle dai germogli superflui che tra tralcio e foglie avrebbero sottratto al frutto le sostanze nutritive, operazione che in dialetto era detta: a semunnà jintertènn [1].
Si procedeva quindi con il legare i rami delle piante, coltivate in filari, non a tendone, mettendoli in ordine per poi formare una sorta di arco tra rami conseguenti due viti. Queste operazioni erano invece chiamate in dialetto a rcegner’ e a rabatt’.

Tutte le operazioni lavorative per garantire un raccolto soddisfacente venivano svolte dai componenti la famiglia ma, quando le estensioni della vigna erano ragguardevoli, si ricorreva per questi lavori, ed anche per i successivi legati alle operazioni di vendemmia, all’aiuto di amici e conoscenti. Un altro esempio di alta valenza sociale. Una mutua assistenza che scattava nel momento del bisogno e che non necessitava di accordi particolari se non quelli di stabilire la scaletta dei lavori in modo che tutti potessero parteciparvi con l’assoluta garanzia che, quanto offerto in lavoro sarebbe tornato in uguale restituzione (lu rescagn, la restituzione del favore lavorativo ricevuto). Questa condivisione riguardava tutte le fasi legate alla produzione di vino e diventava frenetica quando, con i frutti della vigna prossimi alla maturazione, iniziavano anche le operazioni di preparazione delle cantine.

La pulizia dei locali e degli attrezzi necessari avrebbe garantito un’adeguata qualità del prodotto. Vi era anche una grande attenzione per la pulitura delle botti dalle quali era prelevata la ràscie’ e cioè il cremor tartaro [2] che in associazione con il bicarbonato di sodio poteva fungere da lievito. Era raccolto e venduto a lu rasciar’, il personaggio che raccoglieva questa sostanza a forma di cristalli color vinaccia. La pulitura per bigonce di legno, tini, botti, e vasche per la raccolta delle uve animavano il paese.


Non era neanche raro trovare file di tini e bigonce ricolmi d’acqua nei pressi dei locali, a rnturtà ovvero l’operazione che attraverso l’acqua restituiva il turgore al legno in modo che le doghe combaciassero bene e non consentissero la perdita del mosto durante la lavorazione delle uve. Si ripreparavano all’uso tutti gli attrezzi necessari, uajerd compreso, quell’attrezzo che tra le stanghe aveva un buco quadrato che permetteva ad una bigoncia di esservi inserita per circa 2/3 e quindi agevolmente trasportata per i suoi usi.


Appena le giornate di sole di ottobre, nella Valle Peligna tra gli anni ’40 e ’50, permettevano ai grappoli il raggiungimento di una gradazione zuccherina giudicata idonea [3], iniziavano le operazioni di vendemmia alle quali partecipavano tutti, ragazzini compresi, ai quali si riservavano i lavori più adatti. La vendemmia che giungeva, per gli scolari, era considerata anche come uno insperato diversivo per la monotonia delle giornate di scuola che si era autorizzati a marinare. Una sorte di iniziazione per i più valenti ragazzini era costituito dall’affidamento di un importante attrezzo per recidere il picciolo del grappolo d’uva, lu runcitt’. Averlo legato alla propria cintola era motivo di orgoglio e significativo di gran considerazione degli adulti. Però guai a perderlo e non riconsegnarlo a fine lavoro. Immediatamente la buona considerazione si sarebbe trasformata in punizioni, a volte anche corporali, ma, cosa ben più grave, nella derisione dei coetanei che, non avendo avuto assegnato l’attrezzo, si erano “macchiati” della iniziale minor considerazione.

Che fosse iniziato il periodo della vendemmia, a vennegnè o la raccot , lo si intuiva da subito, fin dalle prime luci del giorno nei vicoli e nelle vie dei paesi. Il precoce vociare ed il rumoroso movimento di carri e automezzi, l’odore classico di mosti d’uva, quello più intenso delle vinacce ed il ritmico tic-toc cadenzato dei torchi o dei friscoli ai quali si dava una nuova stretta, era inequivocabile indizio che la vendemmia era esplosa in tutto il suo intenso attivismo. Nei friscoli era necessario dare una ulteriore “stretta”pressoria per non lasciare neanche una stilla di mosto ai vinaccioli ben spremuti e diraspati in precedenza. Non si doveva esagerare perché altrimenti la pressione non avrebbe consentito la fuoruscita del mosto, non stringere troppo altrimenti s’ pann’.
Inconfondibile l’odore del mosto cotto, pregiato dolcificante naturale, che alcuni preparavano con il duplice obiettivo di utilizzarlo per la preparazione dei dolci, per le famose ferratelle al mosto cotto (dette pizzelle in queste zone), ed ancora per gli scarponi, dolce che non può mancare durante le feste natalizie sulle tavole di Pratola Peligna e dell’intera valle.
Invece il vino cotto, con una riduzione di volume più blanda rispetto al mosto cotto, era utilizzato come aggiunta necessaria per arricchire un mosto giudicato non sufficientemente idoneo a garantire un vino di gradazione e dalla sicura conservazione. Operazione quest’ultima consentita dalle norme che impedivano però l’utilizzo dello zucchero per analoga necessità.

Un altro segno distintivo era l’affascinante volare, apparentemente disorganizzato, dei corposi nugoli di drosophila melanogaster, i moscerini del vino, che albergavano costantemente all’ingresso di ogni cantina o sui mucchi di vinacce in attesa di essere prelevate dai raccoglitori. Tutte queste operazioni, un tempo, duravano anche un paio di mesi, cioè dall’iniziale vendemmia delle uve bianche giunte precocemente a maturazione, fino al definitivo spillare del vino il giorno di San Martino. Anche se non giunto a definitiva maturazione quel giorno, il vino poteva essere classificato come prodotto dal risultato qualitativamente accettabile o soddisfacente. Nasce così, dal sunto delle intense attività lavorative legate alla produzione del vino, l’antico proverbio dialettale: Che fa la vigne tè la tigna …intesa come caparbietà [4].
Emidio Maria Di Loreto
Si ringraziano Luciano e Guido Paradisi, Rinaldo Petrella, Tonino Puglielli, Fernando Saccoccia e Bruno Santarelli e per la collaborazione e la concessione delle foto.
Tutte le foto d’epoca appartengono ad un periodo intorno agli Anni ’50
[1] Per tutte le parole nel dialetto pratolano cfr. Rinaldo Petrella, “Parole perdute nello Strapaese”, Edizione Qualevita.
[2] Cremor tartaro: bitartrato di potassio o idrogenotartrato di potassio: sale di potassio dell’ac. tartarico. Rilevato in forma di cristalli come prodotto di deposito durante la fermentazione del mosto. Trova uso in associazione con bicarbonato di sodio come lievito chimico cioè senza far ricorso a microrganismi (lieviti).
[3] La decisione in quasi tutti i casi era affidata a “esperti” ritenuti tali dopo anni di esperienze e risultati sul campo.
[4] Rinaldo Petrella, ibidem, pag. 57
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