
“Il carcere ha al suo interno quattro diramazioni, cioè quattro distinti luoghi di reclusione. Noi stiamo andando alla sezione ‘Agrippa’, quella riadattata secondo le indicazioni di Dalla Chiesa e qui vedrai… beh, andiamo” lo sollecitò Angelo tentando di allargare la rete di recinzione già divelta che li avrebbe condotti alla destinazione finale.
Sebastiano entrò in punta di piedi, come a mantenere il doveroso rispetto dovuto ad un luogo sacro mentre Angelo, come un vero padrone di casa, lo invitò a voce alta a seguirlo.
“Dai vieni, che cominciamo la visita. Ecco, in questa stanza avveniva il primo riconoscimento; dati anagrafici, reato commesso, poi sul dorso della cartellina veniva stampigliata la dicitura ‘Fine pena mai’ ed inserita in questo armadietto – ormai distrutto – ed eri pronto per essere accompagnato dal direttore. Ma prima di arrivare a lui, qui venivi bastonato e l’entità della bastonatura dipendeva da quello che avevi commesso. Già il fatto di essere mafioso non aiutava, poi se avevi ucciso un poliziotto o un magistrato la razione era doppia. Quindi…”.
“Un momento. Angelo, cosa stai dicendo? Ti rendi conto che…”.
“… ti rendi conto tu, Sebastiano, che questo non era un carcere come tutti gli altri? Che pensavi, che ci fosse l’assistente sociale ad attenderli oppure il suo avvocato o qualche giornalista a riprendere la scena? Lo vuoi capire che questa era una detenzione speciale sotto ogni punto di vista? E se proprio il detenuto non l’avesse capito, ci avrebbe pensato il direttore a spiegarlo in maniera ancor più chiara – Qui comandano le guardie. Loro fanno quello che vogliono perché loro sono la legge – Grosso modo erano queste le parole di benvenuto.
Vieni, proseguiamo; ora passiamo nel corridoio dove c’erano le celle” disse Angelo come un vero cicerone, impegnato a far rifulgere la bellezza dei luoghi ad un incredulo ed esterrefatto Colli.
“Aspetta, aspetta. Mi sembra di essere stato attirato in un tranello. Tu nelle lettere mi hai accennato alle condizioni dure, ma perché non mi hai parlato di questo… carnaio? Volevi fare colpo su di me? Cosa pretendi ora? Una lode, o un rimprovero, oppure cerchi commiserazione per aver passato anni qui dentro? Angelo, proprio non capisco!” disse con la testa fra le mani, seduto su di un secchio arrugginito di vernice.
“Ah, non capisci? Sei tu che mi hai dato la forza di ritornare qui dentro, quando mi hai scritto quella bella e dotta lettera sul significato di giustizia; sull’etica della pena, sui limiti del sistema giudiziario. Addirittura hai scomodato Hegel! Quella lettera è carta straccia, di fronte la realtà delle cose – urlò Angelo -. Ecco, guarda quello che ti circonda; e ancora non hai visto tutto! Alzati, per favore. Ti ricordi quando mi hai scritto ‘… credo nella difesa dello Stato, anche se questa debba passare per un manifesto accantonamento dei principi del diritto’; te lo ricordi? Eccole le conseguenze di quella frase. Certo, non è colpa tua, ma quanti l’avrebbero sottoscritta senza neanche immaginare cosa potesse nascondere?”.
Tacquero tutti e due e in quel surreale silenzio, Angelo si chinò su Sebastiano e con premura l’aiutò ad alzarsi.
Proseguirono per pochi metri ed entrarono nel lungo corridoio dove erano disposte le celle. Ormai le porte blindate erano state tolte e quelle restanti in legno si aprivano e si chiudevano assecondando la violenza del vento che passava fra gli spazi aperti.
“Una cella, un detenuto. 12 metri quadrati. Niente finestre, niente luce. Una turca, una panca in ferro lunga 2 metri per 50 cm, un tavolo, un letto. Tutto cementato a terra. Isolamento in cella 23 ore al giorno. Mezz’ora d’aria la mattina, mezz’ora d’aria il pomeriggio. Poi, solo per i mafiosi, ma non per i capi, quattro volte al giorno il pestaggio” aveva detto Angelo, tutto d’un fiato, a voce alta come se fantomatici detenuti dovessero ancora ascoltare le direttive carcerarie.
“Vieni Sebastiano, ti faccio vedere una cosa particolare”.
Colli, con le mani in tasca ed il filtro dell’ultima sigaretta fumata un’ora prima ancora stretto fra i denti, seguì completamente stordito l’invito di Angelo fino ad inciampare su di un contenitore senza manici, annerito dal fumo.
“Attento, così rompi la zuppiera! Accidenti, è ancora qui. Sai a cosa serviva? Qua dentro ci buttavano il pasto per i detenuti poi, siccome non ha manici, ci legavano una corda intorno e la trascinavano nel corridoio, cella per cella, riempivano i piatti con l’aggiunta di detersivo, pezzi di vetro, mozziconi ed altre cose”.
“Ma nessuno ha mai detto nulla? Nessuno si è mai lamentato con il direttore, con qualcuno, insomma!” provò a chiedere Sebastiano.
“Faccio finta di non aver sentito. Dai, vieni qui; l’ho trovata. Guarda” fu l’invito di Angelo. Sebastiano gli si avvicinò e lo affiancò all’entrata di una cella le cui pareti, sebbene dall’intonaco cadente, avevano conservato la loro caratteristica.
“Vedi, quello che rimane del colore, devi sapere, è una tinta molto particolare che a lungo andare, specialmente se si è costretti a guardarla tutto il giorno, crea menomazioni agli occhi; fino alla cecità totale. Insomma, se non diventavi cieco, diventavi matto. Questo era il fine”.
“Mi hai fatto vedere abbastanza. Forse neanche le carceri di Stalin erano così” sentenziò Colli.
“Per favore, lascia stare i paragoni, la Storia. Questa è una prigione italiana dei nostri giorni. Pensata ed ideata da noi italiani anzi, dalla Repubblica italiana” precisò Angelo.
“Ora capisco meglio il significato della tua lettera, la seconda che mi hai inviato. Per un uomo come te, se ti ho capito bene, vivere questo deve essere stato un vero inferno; un oltraggio alla tua personale correttezza di guardia penitenziaria. Come hai fatto a sopportare tutto?”.
“Credevo nel mio lavoro. Sapevo che questa delle carceri speciali sarebbe stata solo un’appendice scomoda e irripetibile. Vedi Sebastiano, nel mio piccolo ho sempre cercato di rispettare tutti i detenuti perché anche il peggiore fra loro è pur sempre un uomo. Guarda, in quello che dico non c’è nulla che possa avvicinarmi ad un credo religioso, è solo il pensiero di un uomo su altri uomini e poi… e poi – disse tirando fuori dal suo zaino un foglio di quaderno piegato a metà – volevo dimostrare a me stesso che quello che un detenuto ha scritto qui, non era vero, che era solo frutto della condizione di un abbrutimento indotto. Te lo leggo ‘Non c’è ragione di aspettarsi che un uomo libero sia moralmente migliore di uno prigioniero e che un uomo prigioniero sia meno di un uomo libero ‘”.
Angelo ripiegò con cura quel foglio di carta e lo depose nuovamente nello zaino, in attesa che Sebastiano dicesse qualcosa.
“Io provo sgomento per tutto e mi sento inadeguato ad esprimere giudizi. Non immaginavo nulla di quello che mi hai fatto vedere. Posso solo ringraziarti per avermi condotto qui e fatto sbattere il viso contro la realtà che, ora ho capito, non sempre coincide con quello che vorremmo fosse. Forse, grazie a uomini come te, un giorno le due cose potrebbero collimare ma, stanne certo, noi non potremo festeggiare” chiuse ironicamente Sebastiano.
Poi alzando la testa chiese:”In quella porta alla fine del corridoio, cosa c’è?”.
Dopo un breve silenzio, Angelo a testa bassa e con voce flebile disse:” C’è la risposta alla tua domanda che mi hai posto nell’ultima lettera. Lì c’è quel pezzo di vita di cui non ti ho voluto parlare, perché volevo farlo qui dentro. Se ancora vuoi conoscerla, andiamo” fu l’invito di Angelo.
“Angelo, pensaci bene. Non sei obbligato a soddisfare la mia curiosità. Se credi che entrare lì dentro possa risvegliare in te sentimenti controversi, lasciamo stare.
Sai cosa ti dico? Mi accontento di sapere da dove diavolo esce fuori il tuo cognome, che proprio siciliano non è”.
“Te lo ripeto. È tutto in quella stanza alla fine del corridoio. Anche la risposta sul mio cognome. Andiamo”.
Sebastiano non oppose resistenza e seguì il suo amico lungo quel corridoio che sembrava non avere mai fine.
Stranamente la porta in legno era rimasta chiusa ed Angelo, in apparenza senza provare emozione, l’aprì come aveva già fatto centinaia di volte con le altre.
Un forte odore di muffa e di urina li investì appena dentro e solo quando Angelo gli fece cenno, Sebastiano si decise ad entrare. Guardò le pareti con l’intonaco scrostato, pezzi di vetro a terra e i grandi buchi che alloggiavano le pesanti viti adoperate per fissare quelle poche suppellettili concesse dal regolamento carcerario.
“Per favore, chiudi la porta” chiese Angelo.
Anche questa volta Sebastiano eseguì senza fare domande.
“Ecco, questa era la quantità di luce che arrivava dentro le celle. Come vedi, a malapena riusciamo a distinguerci noi. Ventitré ore al giorno così, fino alla fine dei tuoi giorni. Siediti su quel bidone vuoto ed ascoltami” fu l’invito di Angelo, che andò ad appoggiarsi nell’angolo di congiunzione delle due pareti, proprio di fronte a Sebastiano.
Sebbene i due distassero non più di quattro metri uno dall’altro, Colli riusciva ad intravedere solo parte della barba bianca di Angelo e le sue parole, assorbite dagli spessi muri, sembravano come provenire dalla buca del suggeritore teatrale; distinguibili ma flebili e sfuggenti.
“Come sai, io sono nato in Sicilia, a Lercara Friddi, da una famiglia né povera né benestante. Sono venuto al mondo senza conoscere mio padre che era morto, così mi dicevano, proprio quando nascevo io.
Allora mia madre, Giuliana Brandimarte, mi battezzò dandomi il suo cognome. Strano, vero? Ma da giovane non ti poni di questi problemi. Mia madre era di Ascoli Piceno e aveva conosciuto mio padre, Salvatore, quando lui faceva lì il servizio militare nel 1946.
Poi tornarono in Sicilia e nel 1947 nacqui io.
Io di lui, non ho mai saputo niente. Neanche il cognome. Pensa, a casa mia non c’è mai stata una sua fotografia; che so, quando faceva il militare, una con mia madre.
Così crebbi senza padre e senza farmi troppe domande su chi fosse stato e, più che altro, su come era morto. Mia madre non mi diceva nulla e io non chiedevo nulla. Poi, c’è da dire che in paese non ho mai sentito fare discorsi su mio padre, né belli né brutti. Silenzio assoluto.
Insomma, cominciavo ad assuefarmi all’idea di non aver mai avuto un padre e siccome anche il mio compagno di banco alle elementari non lo aveva più, pensai solamente di essere un ragazzo sfortunato.
Cominciai a lavorare, lavori saltuari che nessuno comunque mi rifiutava mai; tutti i soldi che riuscivo a guadagnare li davo a mia madre che pensava a mandare avanti la nostra piccola famiglia.
Nel 1969, a ventidue anni, mi stancai di fare quei lavori senza né arte né parte e cominciò a nascere in me l’idea di arruolarmi. In quegli anni, nel mio paese, c’erano stati molti morti ammazzati dalla mafia; lupara bianca, dicevano i giornali, ed io non capivo il senso di quell’aggettivo. Erano stati pallettoni e basta; anzi, se proprio volevano dargli qualche colore, dovevano cercare negli stemmi araldici dei vecchi latifondisti che con molta probabilità avevano commissionato gli omicidi, sempre contro braccianti, sindacalisti e, parola impronunciabile, comunisti.
Sai Sebastiano, Lucky Luciano era morto nel ’62 ma ancora era molto famoso in paese – il capo mafia di allora lo aveva messo lui, era un suo uomo – e il suo nome venerato come una reliquia. Io odiavo quel mondo, te l’ho scritto nella mia seconda lettera, ed ero deciso a fare qualcosa.
L’occasione si presentò per caso, mentre passeggiavo per le vie del paese; l’occhio mi cadde su un manifesto del Ministero degli Interni che bandiva un concorso per guardie carcerarie. Strappai un lembo di quel manifesto, dove c’erano scritti i requisiti per partecipare e di corsa andai a casa per leggerlo riga per riga.
Con sorpresa capii che potevo tentare la prova, ma mi serviva, diciamo… un supporto. Così la mattina seguente feci quello che a Lercara nessuno aveva mai fatto: entrare nella stazione dei Carabinieri. Il maresciallo, Antonino Cavallaro, come mi vide diventò serio e – lo ricordo ora, sbiancando di colpo – subito mi disse:’Cosa è successo? Vuoi denunciare qualcuno? Ti hanno sparato? Forse ti hanno aggredito? Ti hanno lasciato qualche avvertimento?’ – Nulla di tutto ciò – risposi; – voglio arruolarmi nel Corpo delle Guardie di Custodia -. Lo sai cosa fece quel buon uomo del maresciallo? Mi abbracciò e pianse. Si, pianse come un bambino. Gli spiegai la situazione e lui mi disse di non preoccuparmi, di fare il concorso che… al resto ci avrebbe pensato lui.
Poi, come sai, nel 1970, a ventitré anni, venni arruolato.
Stefano Ferrarese
L’albero della cuccagna è uno dei racconti della raccolta
Mettersi in gioco di Stefano Ferrarese
Casa Editrice Serena
pag. 219
€ 15,00
Copertina
Sarah Del Giudice
Mettersi in gioco
Opera in bronzo, 2008
Le successive puntate saranno pubblicate ogni sabato alle ore 15:00
PUNTATA 1
PUNTATA 2
PUNTATA 3
PUNTATA 4
PUNTATA 5
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