L’amaca di domani di e con Michele Serra

Michele Serra L'amaca di domani
history 6 minuti di lettura

Un racconto teatrale molto intenso e divertente che, partendo dalla storia del corsivo che scrive giornalmente da 29 anni, ci restituisce un Serra intimo, autoironico, brillante e inevitabilmente nostalgico di quel ’900 in cui si è formato ed è cresciuto, ma che appare ormai molto lontano, ben oltre i 21 anni che ci separano dall’inizio del III millennio.

Serra parla del grande potere della parola, da una parte pericolosa se viene utilizzata male (come la storia, troppo spesso dimenticata, ci ha già ampiamente dimostrato) ma, dall’altra, indispensabile per costruire quel senso critico che dovrebbe caratterizzare ogni società civile. Serra elogia il dubbio e la sintesi, si sofferma sui rischi che corre nel commentare giornalmente, da così tanti anni, qualcosa rivolgendosi a una notevole quantità di lettori e, inevitabilmente, sottoponendosi al loro giudizio. La paura di ripetersi, la vanità, la spocchia travestita da autorevolezza: tutti elementi con cui scrittori e giornalisti di lungo corso devono fare i conti per mantenere la credibilità, innanzitutto verso se stessi.

Serra, che si presenta in scena con un carrello sul quale sono ordinatamente accatastati i 9.000 corsivi stampati, ricorda l’importanza e la dignità del silenzio e si chiede, guardando una mucca di plastica (altra compagna di scena), se gli animali, proprio in virtù della loro impossibilità di parlare, non debbano essere maggiormente considerati rispetto a noi umani. Siamo la specie più evoluta, ma forse non la più utile per tutelare l’armonia di una natura sempre più contaminata e alterata anche a causa dell’accelerazione del tempo, che non favorisce le riflessioni ponderate ma che, al contrario, facilita una diffusa perdita di senso.

Michele Serra in L’amaca di domani. . Foto Laura Pietra

Nel raccontare la storia dei suoi corsivi, iniziati sull’Unità il 7 giugno 1992 (la rubrica si chiamava Che tempo fa) e proseguiti dal 2001 su Repubblica con l’ormai celebre Amaca di 250 parole (ma, ci tiene a sottolineare, si può scrivere solo da seduti), Serra parla anche della sua vita, professionale e privata. I suoi esilaranti inizi, durante una Parigi-Roubaix, da dimafonista, figura professionale che fino agli anni ’90 aveva il compito nei quotidiani di registrare le comunicazioni telefoniche dei giornalisti e di trascriverle, rendendo così possibile la pubblicazione degli articoli sul cartaceo. La velocità del cambiamento è spaventosa, lo si vede proprio dai nuovi ferri del mestiere del giornalista e dello scrittore. Si può essere frastornati ma, chiarisce Serra, questa tendenza del presente non può e non deve costituire un alibi: è necessario prendersi comunque le proprie responsabilità.

Il rapporto con i genitori, molto diversi tra di loro. Il padre, che gli sembrava un mediocre (“ma da ragazzi non si capisce un cazzo”), ha vissuto con l’idea di non disturbare gli altri prediligendo il silenzio alle parole, fondamentali per la comunicazione ma troppo spesso inutili, se non nocive insiste Serra, per i contenuti che esprimono. La madre, amante della parola, è stata certamente più influente nella sua crescita sebbene fosse dichiaratamente di destra, monarchica per la precisione, orgogliosa della foto di Vittorio Emanuele III con dedica. Il padre non parlava di politica, non diceva niente, “probabilmente era di destra”.

Ancora la sintesi, centrale per il suo lavoro ma difficile da realizzare, quasi una sorta di dono. Cita Voltaire, che una volta si scusò con un amico per avergli scritto una lettera di dieci pagine: “non ho avuto il tempo di scrivertene una di dieci righe”. E le responsabilità, anche molto gravi, di chi scrive, alle quali non ci si dovrebbe sottrarre: si è colpevoli se si esprimono concetti come “piano per la sostituzione etnica degli italiani”. Il successo: contano “il culo e il talento”, ma in quale percentuale? Non sempre è chiaro. E poi perché tutte queste opinioni da manifestare? Forse anche perché i giornali e gli editori pagano… Il sobrio ricordo del suo ricovero in terapia intensiva a Parigi nel settembre 2013, che ha giustificato gli unici tre giorni di sospensione dei suoi corsivi dal 1992. Il sogno ricorrente, grottesco, che sembra nascondere uno spirito fanciullesco e giocoso, di debuttare nell’Inter a 67 anni, oggi…

L’inevitabile politica, grande protagonista di molte delle sue riflessioni. Il Gramsci del 1918; don Milani e il privilegio riservato solo ad alcuni di avere a disposizione strumenti di apprendimento per via di una condizione economica favorevole; le classi sociali, che si vedevano dal quantitativo di parole conosciute e utilizzate per esprimersi; lo studio come insostituibile opportunità per essere più liberi. Serra ricorda l’episodio di un operaio che prese la parola in un’assemblea manifestando una grande coscienza dell’importanza della parola, iniziando così il suo intervento: “ho fatto solo la quinta elementare, parlo male, scusatemi”. Un grande “atto culturale” chiedersi cosa si sa, capire che crescere significa imparare per acquisire consapevolezza. Oggi chi parla male non sente di dover crescere e di doversi mettere in discussione. Adesso prevale una sorta di “ignoranza identitaria”, quasi un dovere ostentato con orgoglio, anche perché leggere e scrivere costa fatica e, per molti, non vale la pena di sforzarsi troppo. Serra mostra nostalgia per i tempi in cui si riteneva che la cultura fosse un valore e che dovesse essere “di tutti”. Carmelo Bene che recitava Dino Campana davanti a ottomila (8.000!) persone, la Scala di Milano (con Pollini e Abbado) che entrava in fabbrica. Poi la cesura degli anni ’80: dal poeta William Blake a Sandy Marton… “Ma non bisogna demoralizzarsi troppo”.

Serra, che ha scritto molto altro tra cui romanzi e poesie, si sofferma sull’innovativa satira di Cuore e rilegge alcuni titoli: “I limiti della democrazia: troppi coglioni alle urne”, “scatta l’ora legale, panico tra i socialisti”. E aggiunge: “quante gliene abbiamo dette, non sapevamo cosa sarebbe venuto dopo”. Ma presto torna ai suoi corsivi soffermandosi sul Text mining che gli ha consentito di capire su chi e su che cosa ha scritto di più, con qualche sorpresa talvolta un po’ inquietante, come le molte (troppe) volte in cui si è dedicato al politico democristiano Rocco Buttiglione, 39 corsivi… Proprio la parola politica è quella che ha usato di più (1661 volte), la seconda è sinistra (1323, ma gli sembrano eccessivi gli sforzi di capire l’indirizzo politico e il futuro del PD), la terza è Berlusconi (1265), poi l’elenco degli animali evocati (mai il rinoceronte, se ne scusa). Legge l’inedita Amaca dell’indomani e si congeda senza retorica.

Dopo gli applausi rimane un senso di soddisfazione, ci si sente più allegri e meno soli, ma anche nostalgici e, forse, un po’ malinconici. È il tempo che passa, che non fa sconti e che ci urla l’urgenza di non rimanere indifferenti.

Andrea Ricciardi

Teatro Franco Parenti – Milano
19-21 Ottobre 2021
L’amaca di domani
di e con Michele Serra
regia Andrea Renzi
scene e costumi Barbara Bessi
luci Cesare Accetta
produzione SPAlive in collaborazione con Teatri Uniti

canale telegram Segui il canale TELEGRAM

-----------------------------

Newsletter Iscriviti alla newsletter

-----------------------------

Se sei giunto fin qui vuol dire che l'articolo potrebbe esserti piaciuto.
Usiamo i social in maniera costruttiva.
Condividi l'articolo.
Condividi la cultura.
Grazie

In this article