
Le parole sono importanti!, urlava “qualcuno” in un film. E aveva ragione. Le parole che scegliamo ogni giorno per comunicare, il tempo per pensarle e per pesarle prima che siano pronunciate, quelle che invece ci apprestiamo a tenere nascoste, sono ciò che costruisce la storia individuale di ognuno di noi. Ma quante volte vorremmo cancellarle o rispedirle al mittente, pentiti di non aver saputo filtrarle o peggio ancora, di aver scelto quelle sbagliate? Quante altre, invece, ne sprechiamo con così poca cura? È fondamentale che le storie che raccontiamo siano vere, autentiche. E affinché ciò accada, di solito, vengono in nostro aiuto i poeti, gli scrittori e gli artisti che scelgono le parole come strumento per costruire il proprio lavoro. Essi hanno la capacità di dar voce, nella maniera migliore possibile, alle loro storie, che per magia diventano quelle di tutti noi.
Questa intervista/conversazione è dedicata ad uno di questi artisti. L'ho attesa tanto, l'ho desiderata e poi per un po' l'ho anche messa da parte. Dovevo studiare, comprendere, emozionarmi facendolo, mettere insieme gli innumerevoli spunti di riflessione. Soltanto allora avrei trovato la chiave giusta per scrivere di Cesare Viel. Leggendo, osservando, ascoltando le sue opere, ho pensato spesso a quanti pochi artisti fossero riusciti così immediatamente a pungere (nel senso “barthesiano” del termine), far riflettere e commuovere. Perché è questo che un vero artista fa, intesse – spesso soprattutto a distanza – una trama invisibile con il proprio interlocutore, il proprio pubblico, anche con quello che non sapeva di avere. Più o meno inconsapevolmente, la trama diventa relazione e finisce per definire qualcosa in più dell'osservatore e dell'artista stesso.

Foto Nico Covre Vulcano 23
Reduce da un'importante retrospettiva dal titolo Più nessuno da nessuna parte e dedicatagli dal PAC di Milano lo scorso novembre, Cesare Viel possiede tratti comuni alla Narrative Art e all'arte post-concettuale. A differenza della Narrative Art, egli usa però la fotografia meno abitualmente, affidando soprattutto al linguaggio (scrittura, audio, video) e al corpo (performance) il compito di diffondere il proprio messaggio. Strumenti, questi, che portano alla luce aspetti del reale – allo stesso tempo – concreti e astratti, empirici e intelligibili. Parole, azioni e immagini che hanno come obiettivo quello di costruire un racconto, partendo da semplici elementi del quotidiano, fatti di cronaca, ricordi del passato, o facendo ricorso ai propri riferimenti letterari e musicali.
La scrittura – in particolare la scrittura a mano – è il mezzo primario a cui ricorre, quello forse più estraneo alle vie consuete di praticare l'arte. Eppure, il suo modo di farne uso, favorisce la creazione di uno spazio emotivo tra sé e il pubblico. Le parole di Viel sono segni il cui significato viene continuamente trasformato, rovesciato, ampliato, a seconda della pelle, degli occhi e delle orecchie che attraversa. Con la voce e con il corpo, poi, la parola diventa autosufficiente: sottraendosi all'immagine e alla fissità, l'ascolto e il movimento costringono il pubblico ad un'attenzione ancora maggiore, poiché essi veicolano concetti ed emozioni assorbiti dal contesto, producendo una sintesi percettiva che apre ad un diverso godimento del contesto visivo [1].
È evidente, in Viel, l'insegnamento di Wittgenstein, filosofo che priva la logica del potere di ridurre il linguaggio a mera denominazione di oggetti, ma con cui esso diventa, piuttosto, un gioco linguistico: Il linguaggio è un processo simbolico in cui i significati non sono dati dal riferimento univoco alle cose di cui sono la descrizione. Esso è una forma di vita, un'attività governata da regole diverse a seconda delle circostanze, delle intenzioni del parlante (Abbagnano-Fornero).
Tipico del gioco è l'uso del segno linguistico, la credenza che l'uomo gli attribuisce, che non è mai una regola; le regole dei giochi linguistici sono spesso inconsapevoli ed inespresse e dipendono dalle contingenze. Ed è proprio questo il senso dell'arte di Cesare Viel: costruire un linguaggio, fatto di parole e di gesti, in grado di adattarsi, di mutare, a seconda delle esigenze di chi ascolta e di chi guarda. La sua narrazione è volta a risalire alla radice di ogni esperienza fenomenica; come un moderno discepolo di Schopenhauer, Viel ci invita ad usare i sensi per poi oltrepassarli, a lacerare il velo dell'apparenza per svelare l'origine autentica e sostanziale delle cose.
Uno degli intenti principali del suo lavoro è insistere sul concetto di identità, che si costruisce sempre nella relazione – corporea e linguistica – e che per questo non ha una definizione chiara. La consapevolezza di essere chi sono adesso, non mi impedisce di essere anche qualcos'altro, qualcun altro, che è un po' il senso ultimo di Androginia (1994): la costruzione del sé si attua nella relazione con l'altro. Ma la relazione può essere anche un terreno di perdita del sé? Come si fa a non smarrirsi, mescolandosi continuamente con il mondo?
Forse il miglior modo per non smarrirsi è proprio il non averne paura. Non temere mai l'imprevisto, meglio progettare di lasciar andare i piani, gli obiettivi e aprirsi al divenire dell'esperienza. E non forzare le cose. Perdersi nel mondo è un modo per trovarsi.
Come si è articolata e come è evoluta la trasformazione del suo sé, del sé dell'artista, in questi anni di lavoro?
Ho cercato via via di decostruirmi, di perdere pezzi, e nello stesso tempo di arrivare all'essenza delle cose. Fare vuoto, fare spazio. Cercare di respirare. Mantenere sempre una forma di stupore, non dare mai nulla per scontato. Ricominciare da capo. E cercare di dire sempre la verità, prima di tutto a me stesso, per avere il coraggio di dirla anche agli altri, ad alta voce.

Più nessuno da nessuna parte.
Foto Nico Covre Vulcano 15
Ho scoperto chi fosse Cesare Viel con Lost in Meditation, un lavoro del 1999. Ricordo che al Master che seguivo anni fa, ci chiesero di scegliere un'opera che avremmo voluto portare alla mostra collettiva di fine anno, da curatori. Purtroppo la balla di fieno gigante, cuore dell'opera, non era prevista per il nostro spazio. Ancora mi brucia… Quando, alla fine del racconto con la sua voce, partono le prime note del brano della Fitzgerald, penso a quanto sia forte il potere evocativo di questo lavoro e a quanto il suo corpo, pur rimanendo quasi immobile, trasmetta forte quel senso di malinconia, insieme all'esigenza di fungere da portale tra il passato e il presente. Perché proprio questa performance a fare da apertura per la mostra al PAC del 2019 ?
Per un insieme di ragioni, che posso sintetizzare con l'esigenza di entrare in un dialogo immediato con lo spazio del PAC e con l'intensità emozionale del mio complessivo modo di procedere. Volevo incominciare con un'installazione di forte impatto visivo, sonoro, olfattivo, per suggerire al pubblico subito quella dimensione di stupore che vado sempre cercando. Il muro di fieno che sbarrava quasi il passo all'entrata della mostra rispondeva per me alla necessità di creare una forte sensazione immersiva. Far entrare il pubblico in un ricordo, in un sogno, oltre che in un'opera che è anche un dispositivo performativo. E “Lost in Meditation” in questo senso è per me una sorta di opera-icona, un'opera-manifesto.

Foto Lorenzo Palmieri 007
Le dimensioni temporali hanno confini labili nelle sue opere. Il passato non è soltanto memoria, ma senso di responsabilità nei confronti di un tempo che s'intreccia di continuo con il nostro. Per raccontare di questo fil rouge, lei si mette in gioco fisicamente ed emotivamente, ripercorrendo la sua storia personale. Si prende cura della vita, attraverso la parola; spesso, soprattutto della vita che non è più, come quella dei suoi genitori (Il giardino di mio padre, gli oggetti sotterrati (2019); Avvicinandoti a distanza, Ti sento passare, Mi trovavo a casa (2008). Che rapporto ha lei con questa assenza-presenza?
Credo che l'arte debba partire da una vera necessità di pensiero, di emozione, dunque che debba anche fare i conti con l'elaborazione del lutto, che è un passaggio fondamentale nella vita di tutti noi singolarmente, ma anche come società. Fare i conti con il tempo che passa, con la memoria privata e insieme collettiva, con la responsabilità culturale e politica che mettiamo in gioco ogni giorno. Penso che fare arte per me abbia sempre significato, fin dall'inizio, mettere in campo un'attitudine di pensiero che sottoponga le nostre esistenze a verifiche psichiche e conoscitive continue del nostro modo di stare al mondo, e di fare sempre domande. La relazione tra presenza e assenza è per me un modo per creare da dentro le emozioni. In fondo si parte sempre da se stessi per realizzare un lavoro, dalle proprie esperienze personali, per poter poi far entrare tutti gli altri, in questo mistero sta l'equilibrio precario da ricercare: tra soggettività e anonimato, intimità e spazio pubblico.

Pac Performance
Foto Lorenzo Palmieri 132
Tra gli artisti che più hanno ispirato la sua arte, c'è Matisse. Infinita ricomposizione (2015) è una performance in cui lei posiziona per terra pezzi di feltro colorati, modificando di continuo la loro disposizione. Gli oggetti si ispirano alle forme e ai colori utilizzati dal pittore nelle sue tele, come ha ammesso lei stesso. Inoltre, nei movimenti del corpo (suo e degli altri performer) mi sembra chiaro il riferimento a La danza. Pittura e performance. Un connubio curioso e originale: una sembra appartenere più al passato e l'altra, invece, al presente dell'arte. È davvero così? Cos'hanno in comune queste due pratiche artistiche?
Proprio il fatto di essere entrambe delle pratiche, dei processi che, come tali, devono restare per esprimere al meglio la loro energia artistica. Sia la pittura sia la performance oltre che produrre prodotti (opere), devono produrre processi dinamici che siano il riflesso del loro tempo storico. Matisse usava la pittura per inventare nuovi linguaggi nel modo di dipingere, io cerco di usare la performance per provare a inventare nuovi linguaggi e nuove forme della performatività, che poi ci riesca bene o male non sta a me dirlo.
Dallo spostamento corporeo lei passa allo spostamento linguistico: un altro dei punti fermi della sua ricerca è la riflessione sulla comunicazione e sulla capacità di quest'ultima di essere manipolata, sul trasferimento volontario di significato, come accade in Diario contemporaneo (2004). Qui, lei insiste soprattutto sull'accezione positiva contenuta in questa possibilità, ma cosa accade quando la manipolazione linguistica va a discapito del fruitore?
In questo caso genera falsificazione e mistificazione, e addormenta le coscienze. Siamo costantemente sottoposti a manipolazioni di notizie per arricchire qualcun altro. Come diceva Gramsci: dobbiamo continuare a istruirci perché ci serve tutta la nostra intelligenza. E anche l'arte può aiutarci in questo senso, può e deve contribuire ad allenare la mente, a tenerla sveglia.

Più nessuno da nessuna parte
Foto Nico Covre Vulcano 19
Lei non tratta spesso d'amore nei suoi lavori, o almeno, non di quello comunemente inteso in quanto “rapporto a due”. Ma, con la sua compagna Laura Guglielmi ha realizzato – sempre per la mostra al PAC – un'opera audio in cui le vostre due voci si scambiano memorie, pause, riflessioni sulla coppia, intrecciandosi fino a confondersi; un vero e proprio flusso di coscienza che scava, appunto, Nel cuore della relazione (2019). Anche qui, lei riesce, scrivendo un diario intimo, personale, a renderlo storia collettiva, spazio di immedesimazione. Le confesso di aver pianto. Com'è nata l'esigenza di condividere la sua storia e che valore ha avuto – ed ha tutt'ora – in essa, il silenzio?
Rischiare e mettere in gioco se stessi, prima di tutto è per me il modo di essere artista. L'ho imparato dall'amore, con la mia compagna. Ho imparato grazie a lei che cosa voglia dire veramente “relazione”. È un lavoro continuo, da non dare mai per scontato. In questo senso anche la ricerca artistica è una forma d'amore, e di relazione. Una passione continua che dà senso alla vita. Ho voluto mettere questo nuovo lavoro sonoro in mostra al PAC perché ho sentito che era arrivato il momento giusto per farlo. Ne abbiamo parlato e discusso a lungo con la mia compagna. Alla fine è stata davvero una collaborazione, un lavoro duale composto, credo, di una giusta dose di leggerezza e profondità emotiva, autoironia, sentimento e onestà intellettuale. In questo equilibrio instabile poi gioca un ruolo fondamentale il rapporto tra il dire e il tacere, il parlare e l'ascoltare. Silenzio e parola, l'uno proviene dall'altra, e viceversa, in uno scambio continuo.
L'emergenza sanitaria e sociale attuale ci ha messo di fronte alla necessità di confrontarci con l'altro come mai era successo prima, di prendere coscienza che la nostra stessa sopravvivenza dipende dal nostro vicino. Cambierà davvero la nostra concezione della reciprocità? In una società che ha bisogno di riconsiderare tutte le sue priorità, qual è oggi il ruolo della parola, considerando che – come lei stesso sostiene – le intenzioni di chi parla non sono mai quelle di chi ascolta?
Difficile rispondere. Non so prevedere quello che succederà, è enorme quello che è successo. È una sfida collettiva epocale, e ci siamo ancora dentro. Se non riusciamo a cambiare radicalmente rotta ci perderemo. E sarà una perdita forse definitiva. Ambiente, risorse, natura, tutto entra in gioco. Dobbiamo ripensare i nostri modelli di vita e di produzione materiale. Ne va della nostra sopravvivenza, abbiamo iniziato finalmente forse a rendercene veramente conto, sarebbe orribile se ce lo dimenticassimo e tornassimo a uscire e a vivere esattamente come prima. La parola sarà importante, il modo di usare le parole sarà determinante per aprire e praticare orizzonti di consapevolezza individuale e collettiva. Il linguaggio è un virus altrettanto potente, dobbiamo reimparare a usarlo in un modo diverso, più libero e in un migliore contatto con la realtà del presente.
Angelica Falcone
[1] F. Guerisoli, Finché le nostre frasi non fluiranno via, in Più nessuno da nessuna parte, catalogo mostra, Silvana editoriale, Milano, 2019.
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