
Quando si parla di sociale in giro, al bar, a tavola, al mare o in piscina, cos'è che veramente viene in mente agli interlocutori? Siamo sicuri di avere le idee chiare su quale sia il mestiere dell'operatore sociale e se sia un mestiere a tutti gli effetti? Quanta confusione c'è in merito al settore di sua competenza e alla ricaduta che ha nel quotidiano di ciascun cittadino? Si tratta di assistenza, accoglienza, volontariato?
Molto spesso si pensa al sociale come a quell'area di cui si occupano persone magnanime per sollevare la condizione disagiata di altre persone gravanti sul bilancio statale. Di cui, tra l'altro, lo stato non dovrebbe occuparsi perché, se lo facesse, toglierebbe attenzione e risorse ad altre persone. Estremizzando e imbarbarendo alcune posizioni, non si esagera nel dire che questo è quanto emerge dai discorsi a cui capita di trovarsi nei luoghi di incontro e nei social network, all'interno di quella “società civile” che, non certo a caso, Hegel aveva definito come “il fuori da sé”.
Ma coloro che ne parlano in questi termini, con leggerezza e superficialità, non sanno di esserne totalmente parte. Il sociale è quanto di più riguardante ciascun individuo che entri in relazione con l'altro da sé. E parlare di sociale significa già fare del sociale, stare nel sociale.
A rispondere a quali siano i settori d'interesse e cosa significhi operarci dentro, è il libro Lavorare nel sociale una professione da ripensare, a cura di Giulio Marcon (Edizioni dell'asino). Una guida, una raccolta di articoli autorevoli, in qualsiasi modo voglia leggersi o presentarsi, esso è anzitutto una risposta esaustiva sia al senso comune, sia agli addetti ai lavori che sono molti più di quanti si creda o si definisca. Vuole essere un manuale, ma si presenta soprattutto come racconto oggettivo dell'esperienza di persone che hanno operato e operano nel campo. Ha il pregio di essere poco ottimista e molto realista e di mettersi nei panni di tutti gli operatori e destinatari del servizio, adottando sia un occhio generale che uno particolare. Può essere da stimolo a chi lavora nel sociale, a far riflettere sul proprio agire ampliando l'orizzonte.
Giulio Marcon nell'introdurre il libro, facendo un'analisi contestuale, ci rende noto come le persone che traggono un reddito facendo un lavoro di carattere sociale siano oltre 680mila, secondo diverse indagini. E che i mutati bisogni di una mutata società effettivamente richiedono una professionalizzazione del lavoro di cura, assistenza e attenzione. Conclude però il suo intervento dando importanza a tutte quelle caratteristiche che, assieme al ruolo d'etichetta, al lasciapassare, all'appartenenza ad un albo, pur necessari, accompagnano e costituiscono davvero questo “mestiere”:
«Il mestiere dell'operatore sociale è anche un'arte, una vocazione, come la si concepiva nel medioevo: la cura del dettaglio, l'attenzione alle sfumature, il gusto artigianale del lavoro ben fatto. E- della massima importanza- la solidità morale e personale, la coerenza con le origini da cui trae la forza il lavoro sociale: la solidarietà e la giustizia sociale.».
E chi sono gli operatori? Chi, insomma, coloro che fanno il mestiere di cui scrive metaforicamente Marcon, prendendo spunto dalle arti, dalle corporazioni, pur sapendo di assistere alla lavorazione di una materia ben diversa e non di minore difficoltà? Nella lettura si presentano e si raccontano educatori, attivisti, operatori del Welfare, coloro che si occupano della finanza e dell'economia che prova a reggere il settore. Tutti teorizzano senza perdere il contatto con la concretezza che li forma, poiché hanno fatto lo sforzo di analizzare in modo critico il proprio lavoro e ne hanno tratto piccoli strumenti che altri possono utilizzare o contestare, migliorare. Poiché conoscono bene il fatto che la realtà è un continuo divenire e che spesso bisogna rimodellarsi e riformularsi per essere efficaci e per non perdere di vista proprio l'obiettivo più importante: la persona, l'altro da sé.
Educatori che stanno nella scuola o la affiancano, che cooperano con essa e fuori di essa, con la famiglia. Che fanno da ponte tra l'individuo – bambino, adolescente o adulto – e le regole sociali, l'ambiente. I quali, però, debbono sempre tenere a mente il fatto che il ponte abbia due sponde e che quanto si vuole trasmettere, tanto si può apprendere. Così infatti scrive Cecilia Bartoli nel suo articolo “L'educazione come vocazione”, di cui ci piace mettere in evidenza il paragone dell'educatore ad un artista che abbia la volontà di tirar fuori dal proprio lavoro qualcosa di bello, cercando di affinare in modo critico i propri strumenti, sopportando anche la frustrazione e l'assenza di ispirazione.
«Le relazioni educative fanno sì che ci si guardi ognuno come in uno specchio, capace però di tenere dentro sia le virtù che le deformità. I luoghi educativi che tendono a uniformare sono il contrario del modello dell'educazione attiva; l'educatore cercherà relazioni autentiche di confronto, anche di contrasto, in cui accetterà di misurarsi con i valori e le tendenze distruttive, spesso con la disillusione, gestendo ma non eludendo le dimensioni affettive.»
Tal posizione non si allontana da quella degli altri educatori che riflettono e raccontano attorno a parole che riteniamo chiavi come “potere” (nel senso di poter fare e poter essere anziché come dominio); “creatività”; “spazio pubblico”; “emozione” (come madre del pensiero); “gioco”. Va tenuto in considerazione il ragionamento sui rischi di cadere nella retorica degli “ultimi”: l'educatore non è un “salvatore degli ultimi”, ma una persona che consapevolmente accompagna l'altro nella presa di coscienza del proprio sé all'interno del contesto proprio e di quello che magari potrebbe essere. Certamente anche nei contesti di emarginazione. Contesti che vengono presi in esame, ad uno ad uno, nel seguito del libro.
Parlare di diritti umani vuol dire parlare di emarginazione da essi e di ricerca di una soluzione perché questi vengano garantiti a tutti. Tema sociale, senza dubbio, di un sociale che collabori con la legge e lo stato. Così come la collaborazione col settore da parte dello stato è necessaria affinché l'emarginazione non sia una caratteristica descrivente la nostra società, qualora si parli di migranti e richiedenti asilo:
«L'effetto di una politica ottusa che si protrae da oltre vent'anni è stato quello di alimentare i canali di ingresso irregolare in Italia (in sostanziale assenza di quelli legali), costringendo un numero elevatissimo di stranieri (…) a ricorrere a periodiche regolarizzazioni (…). Occorre dunque che intervenga una profonda modifica legislativa che consenta l'incontro tra domanda e offerta sul territorio nazionale mediante l'ingresso per ricerca occupazione in ragione della sua maggiore aderenza alla realtà della catena migratoria e delle dinamiche del mercato.».
Questo è uno dei pertinenti ragionamenti sulla questione immigrazione, attinente al sociale e non solo, fatti da Gianfranco Schiavone. Egli apre il suo articolo con la citazione del sociologo algerino Abdelmalek Sayad che vede le migrazioni come uno specchio della società di provenienza ma anche di destinazione, essendo un “fatto sociale totale”. La evidenziamo per dire che chi si occupa di esse nel concreto, non può non rendersi conto di come la nascita di situazioni problematiche stia anche in una gestione problematica a monte. Il settore sociale ha un occhio privilegiato sull'evento migratorio, ma deve essere supportato dalle leggi, dalla regolamentazione, dall'attenzione giuridica che risiedono anche in altri piani, in altre responsabilità, in altri settori.
Così come educatori e operatori sociali, pur facendo una grande azione di sostegno e mediazione alle popolazioni Rom e nomadi -attraverso l'avvicinamento alla scuola ed alla sanità e attraverso l'empatia ed il rispetto- non possono da soli far fronte a tutta la regolamentazione di cui c'è bisogno. Di certo però possono abbattere i pregiudizi, evitare la ghettizzazione, rispettare l'importanza della cultura. Un bell'articolo di Sergio Giovagnoli apre gli occhi anche su questo orizzonte di interesse sociale, dando importanza al valore di alcune differenze, chiamandole ad uscire dai luoghi appartati e avvicinandole a quelli pubblici.
Nel libro si racconta inoltre del lavoro in carcere, dove tutto si dilata; della protezione delle vittime di tratta e del saper ascoltare; del lavoro di comunità dove la pietas e la kénosis possono esser ripensate.
Non mancano riflessioni di alcuni professionisti che operano molto nel sanitario, un sanitario che non può più fare a meno di mettersi in stretta relazione col sociale. Relazione a cui però si sta lavorando per cercare di determinare confini, limiti e aperture.
Interessanti ed autocritiche, tra le altre le riflessioni, quelle degli assistenti sociali e di coloro che lavorano con la disabilità e la salute mentale. Citiamo un passo di Dario Stefano Dell'Aquila sulla formazione degli operatori che si avvicinano a questo ambito:
«Possiamo dire cosa bisogna evitare. Non considerare la persona attraverso i suoi sintomi, all'operatore non compete fare una diagnosi né mettere in discussione quella fatta dai medici. L'operatore che incontra un sofferente psichico deve liberarsi dallo sguardo medico, riconoscere l'altro, senza mai fingere di ascoltare o di capire. La follia è sempre il tentativo di un linguaggio, anche nella crisi più acuta, si deve fare ogni sforzo di comprensione. L'operatore deve rifiutare sempre il ruolo di guardiano e di custode, perché l'operatore sociale non è la persona che deve rendere il sofferente psichico docile all'istituzionalizzazione psichiatrica.»
Proposte di approfondimento e formazione, profili degli autori e operatori, un quadro abbastanza esaustivo sul lavoro sociale è quanto contiene il libro, oltre a quanto abbiamo cercato di estrapolare dando uno sguardo agli eventi di questi giorni, alle polemiche che spesso si innalzano e al bisogno di vedere meglio dentro alle cose.
Adelaide Roscini
Lavorare nel sociale una professione da ripensare
A cura di Giulio Marcon
Edizioni dell'asino
2015
Pagine 188
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