
La strategia del Presidente turco Recep Tayyp Erdoğan è quella di accrescere il dominio e il controllo all'interno e all'esterno del paese. Per farlo sta combattendo due guerre una in Turchia e l'altra al di là dei confini. Si tratta spesso di guerra vera fatta con armi sofisticate e che porta violenza anche tra i civili, ma anche di una guerra politica per legittimare istituzionalmente la leadership.
Uno degli obbiettivi, e nemmeno merginale, di queste guerre sono i curdi con i quali era in corso fino a luglio scorso una tregua dal 2013. Era il 16 novembre di quell'anno quando l'allora primo ministro Erdoğan a Diyarbakir teneva un discorso che «fu da molti giudicato una pietra miliare nel nascente processo di pace con la minoranza curda di Turchia. […] si rivolse ai curdi della città e di tutto il paese promettendo che presto sarebbe arrivato il giorno in cui “i guerriglieri sarebbero discesi dalle montagne e le carceri si sarebbero finalmente svuotate”» [1].
La ripresa del conflitto armato è iniziata il 20 luglio dopo l'attentato, rivendicato dall'Isis, nella città turca di Suruc. Sono iniziati i primi bombardamenti delle postazioni dello Stato islamico in Siria che ben presto sono stati rivolti verso i curdi del Partito curdo dei lavoratori (PKK). Al termine di un incontro d'urgenza con i membri della Nato ha ottenuto il via libera e il 24 luglio con gli attacchi degli F-16 in territorio siriano la polizia turca iniziava operazioni che più che colpire attivisti del terrorismo islamico portava all'arresto di membri del PKK.
Turchia, Istanbul. Foto Cristiano Roccheggiani
Come ha scritto Matteo Zola «il gioco del governo turco è quindi apparso subito chiaro. Colpire l'ISIS non è stata, fin qui, una priorità di Ankara e la mutata strategia serve come schermo al reale obiettivo, ovvero le milizie curde stanziate oltre il confine. La NATO ha masticato la foglia ma ha fatto buon viso a cattivo gioco. […] L'accordo raggiunto tra la Turchia e la NATO prevede una cooperazione “primariamente finalizzata all'aiuto dei ribelli arabi siriani impegnati nella lotta all'ISIS e stanziati nei pressi della frontiera turca”. Gli arabi, quindi, non i curdi» [2].
E così lo scontro si è trasferito anche all'interno Istanbul compresa, con molteplici attentati dopo la violenta campagna anti-terrorismo avviata dal governo e i distretti della priovincia curda di Diyarbakir sono tornati nel buio degli anni pre –tregua con combattimenti continui. «A Diyarbakir, tra i vicoli di Baglar, Surici e Kaynartepe, un'intera generazione di giovani curdi si sta unendo a una lotta che per due anni era rimasta silente: da settimane scavano trincee e innalzano blocchi stradali per impedire l'ingresso della polizia, i cui agenti sono spesso accusati di colpire nel mucchio, arrestando e malmenando civili ed attivisti» [3].
Da quando sono cominciati i bombardamenti quasi centomila abitanti del Kurdistan turco sono stati costretti ad lasciare le proprie abitazioni. Si stima che oramai siano vicine al migliaio le vittime tra cui anche molti civili.
La strategia, diplomatica e armata, che Erdoğan sta combattendo all'esterno è quella di allargare la propria zone d'influenza e naturalmente la presenza dei curdi nelle aree confinanti è un ostacolo al progetto. La minoranza curda, secondo molti analisti internazionali, paga a caro prezzo anche per l'affermazione elettorale dell'HDP curdo (Halkların Demokratik Partisi, Partito Democratico Popolare) alle elezioni del 7 giugno scorso consentendo l'entrata in Parlamento con il 13% dei voti e 80 seggi che hanno di fatto impedito la formazione di un esecutivo monocolore dell'AKP (Adalet ve Kalkınma Partısı, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) e in generale di un governo. Infatti dopo estenuanti e inutili trattative si è da poco formato un governo di coalizione, al quale partecipa anche l'HDP, che dovrà portare la Turchia alle nuove elezioni generali di novembre. Per Erdoğan si tratta di utilizzare l'instabilità e la crisi con attentati in tutto il paese per provare ad avere la maggioranza assoluta e poi procedere alle riforme costituzionali che accentuerebbe di molto la natura presidenzialista della Repubblica.
Il 14 Agosto scorso il presidente dichiarava con molta naturalezza che «nel paese c'è un presidente che ha il potere de facto, non è un presidente dal ruolo simbolico … che lo si voglia o no, il sistema amministrativo della Turchia è cambiato. Ora, quello che si dovrebbe fare è di aggiornare questa situazione de facto all'interno del quadro giuridico della Costituzione». Quello che sta accadendo, secondo Mustafa Akyol noto editorialista turco, è un tentativo di un colpo di stato, e che «“negli ultimi dieci anni, molti degli avversari del presidente Recep Tayyip Erdoğan sono stati accusati di ordire colpi di stato in Turchia contro ‘l'ordine costituzionale. […] È stato anche un tema dominante della macchina di propaganda filo-Erdoğan volta a rappresentare tutti gli elementi dell'opposizione turca come pedine di un complotto globale per rovesciare Erdoğan con un colpo di stato. […] [4]».
La politica internazionale turca volta è sempre volta ad acquisire il ruolo di potenza regionale riverdendo i fasti dell'Impero Ottomano. Questo obbiettivo non cambia anche se, diversamente da quanto accaduto finora, l'impegno militare contro l'Isis è diventato rilevante in concomitanza dell'accelerazione impressa dalla Nato e dagli USA in particolare.
Come ha spiegato bene Giuseppe Cucchi la questa politica si muove su due binari. Uno caratterizzato da una «strategia più evidente, centrata su un'immagine del paese che deve rimanere quanto più immacolata, filo-occidentale e filo-atlantica possibile. Ecco dunque le recenti concessioni fatte a Cipro, […]. Ecco la concessione dell'uso della base aerea Usa di Incirlick, […]. Ecco l' idea di occupare in Siria una zona cuscinetto che consenta di sottrarre al rischio dei combattimenti centinaia di migliaia di profughi. Ecco infine l'annuncio dell'intervento contro il “califfato”, e poco importa se tale intervento si sia limitato a qualche sporadica cannonata mentre la vera azione bellica è stata quella contro i curdi del Pkk, […]».
Sul secondo binario viaggia una strategia per nulla evidente e per le quali l'analista si muove sul campo delle ipotesi. L'idea parte dal fatto che l'avanzata dello Stato Islamico è un sostegno ai sunniti nello scontro religioso, politico e militare con gli sciiti. Di fatto è riuscito a meglio separare le aree sunnite in Iraq e in Siria e contemporaneamente ha costretto sul terreno le milizie sciite irachene, libanesi e iraniane impedendo all'Iran di dispiegarle in altre aree di rilevanza sunnita. Tutte situazioni che hanno fatto comodo alla Turchia e all'altro sponsor sunnita, l'Arabia saudita. Quello che potrebbe succedere ora, come ipotizza ancora Cucchi, è che «la Turchia possa mirare a sostituirsi col tempo allo Stato Islamico – magari anche con qualche decisa azione bellica o con una serie di silenziose epurazioni che ne eliminino i vertici – e divenire il punto di riferimento del nuovo paese sunnita che emergerà alla fine della fase rivoluzionaria di questo conflitto, dobbiamo constatare la continuità della politica turca, che apparirebbe figlia di un unico grande disegno strategico» [5].
Pasquale Esposito
[1] Antonio Michele Storto, “Diyarbakir, la polveriera del Kurdistan turco sull'orlo della guerra civile”, www.redattoresociale.it, 2 settembre 2015
[2] Matteo Zola, “TURCHIA: Il gioco sporco di Ankara, colpire i curdi con la scusa dell'ISIS”, www.eastjournal.net, 30 luglio 2015
[3] Antonio Michele Storto, ibidem
[4] “Turchia: le tendenze autoritarie del presidente”, www.balcanicaucaso.org, 20 agosto 2015
[5] Giuseppe Cucchi, “Se il sultano Erdoğan vuole farsi califfo”, www.limesonline.com, 31 luglio 2015
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