L’ergastolo ostativo abolito dal nostro sistema giudiziario?

carcere ergastolo
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Una notizia simile, sembra uscita più come sorpresa dell’uovo pasquale che come conseguenza di un tormentato iter di revisione del nostro sistema giudiziario almeno per quella parte che concerne le pene detentive.
Personalmente, visto il peso della questione, mi sarei atteso una maggiore attenzione al problema da parte dei mezzi di informazione ed invece il comune cittadino, attento ed interessato ai pesanti problemi che affliggono il nostro sistema giudiziario, ha dovuto fare i salti mortali per accaparrarsi scampoli, stralci, brevi e fugaci cenni di articoli di giornale sull’argomento. Comunque, andiamo per gradi.

Il problema dell’abolizione dell’ergastolo, si affaccia in Italia intorno alla metà degli anni ’50 del Novecento e il contrasto stridente fra la sua esistenza e il dettato dell’art. 27 della Costituzione – “Le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato” – è posto in risalto dal direttore dell’epoca del carcere di Santo Stefano, Eugenio Perucatti, il quale senza tanti giri di parole definisce il penitenziario da lui diretto la “tomba dei vivi”.

Al di là di questa tagliente affermazione, giova ricordare che nel nostro sistema penale la normativa che concerne le pene detentive, è incentrata su due concetti già capisaldi della cultura cattolica e cioè il “pentimento” e la “redenzione”, in evidente contrapposizione al diritto anglosassone – di indubbia matrice protestante – nel quale il reo, commettendo un reato, contrae un debito nei confronti della comunità e per tale motivo deve saldarlo, appunto, con la reclusione e la conseguente perdita della libertà personale.

Da quell’epoca ad oggi, tanti sono stati i tentativi di una profonda revisione di quella specifica tipologia di detenzione ma altrettanti sono stati gli insuccessi collezionati.
Tutto però sembrò cambiare o, almeno, proiettare la pena dell’ergastolo verso una nuova configurazione con l’introduzione il 26/07/1975 della Legge n. 354 che sancisce le nuove norme sull’ordinamento penitenziario e l’esecuzione delle misure limitative della libertà.
Pur ribadendo al TITOLO I, Capo I, Articolo 1 che “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità delle persone” [1], l’articolo 4bis è quello che di fatto introduce l’ergastolo ostativo lì dove statuisce “… i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI… possono essere concessi ai detenutisolo nei casi in cui tali detenuti collaborino con la giustizia…” [2].
Collaborare con la giustizia non può non presupporre che un sincero “pentimento” da parte del reo e forse, nei casi fortunati, anche il completo ravvedimento sui comportamenti criminali assunti come base di vita, permettendo quindi di poter dichiarare l’avvenuta “redenzione” e purificazione.
Quindi intorno a quei due concetti, ancora una volta, si fa ruotare l’intero corpus normativo dell’ordinamento penitenziario, sorvolando sul fatto che il diritto al “silenzio” è pur sempre espressione e pratico esercizio del diritto alla difesa.

Fra alti e bassi, soltanto nel 2019 tutto sembra ritornare in discussione quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza del 13 Giugno ribadisce quanto segue:

”…la Corte considera che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente – caso Marcello Viola contro Italia – in applicazione dell’articolo 4bis della legge sull’ordinamento penitenziario, detta ‘ergastolo ostativo’, limiti eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena. Pertanto, tale pena perpetua non può essere definita riducibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione…” [3].

Da qui, è un susseguirsi di prese di posizioni che sfociano con una ordinanza del 18 Giugno 2020 della prima sezione penale della Corte di Cassazione nella quale si solleva la questione della legittimità dell’articolo 4bis e delle altre norme che, di fatto, escludono per il condannato all’ergastolo – per delitti commessi con il metodo mafioso e che non abbia collaborato con la giustizia – di usufruire della libertà condizionale.

L’assenza di commenti su questa ordinanza (è bene ricordare che in Cassazione, l’ordinanza da una parte e la sentenza dall’altra, assumono una efficacia giuridica molto simile potendo entrambe incidere su aspetti procedurali e sostanziali della vicenda trattata) viene colmata il 23 marzo scorso dall’Avvocatura dello Stato, nella persona dell’avvocato dello Stato Ettore Figliolia, che davanti alla Corte Costituzionale pur ribadendo un no secco alla richiesta della Cassazione, lascia uno spiraglio aperto “suggerendo” che la Corte potrebbe interpretarla nel senso di dare discrezionalità al giudice di Sorveglianza delegando quindi, a questo giudice, la verifica delle ragioni che non consentono una condotta collaborativa.

Temo che qualche lettore si sia annodato su sé stesso leggendo questa interpretazione che dice tutto e allo stesso tempo non aiuta alla soluzione del problema.
È innegabile, comunque, che un piccolo passo avanti seppure di natura compromissoria, sia stato fatto se si tiene a mente che nel 2019 il Ministero di Grazia e Giustizia e la stessa Avvocatura dello Stato si erano pronunciati contro qualsiasi apertura.
A questo punto tutto è nelle mani della Corte Costituzionale che, ricevuto indietro il cerino acceso, proprio dopo Pasqua dovrà pronunciarsi e, secondo molti opinionisti, non potrà fare altro che affermare la linea proposta dall’Avvocatura dello Stato.
Se così fosse, non pochi sarebbero i problemi pratici che ricadrebbero sulle spalle dei Magistrati di Sorveglianza.
Pur ricordando che comunque il soggetto detenuto che faccia richiesta di concessione dei benefici deve aver scontato almeno ventisei anni di reclusione, quali possono essere gli elementi oggettivi di valutazione quando il richiedente, ad esempio, afferma e dimostra di non avere nulla da dare o da dire come contributo verso lo Stato, in segno di reale dissociazione dal consorzio criminale?
Certo non può bastare la c.d. “buona condotta” per far scattare gli automatismi perché, l’esperienza insegna, nessun detenuto per associazione mafiosa ha mai tenuto comportamenti sanzionabili e poi, proprio per la gravità e pericolosità sociale del reato, sarebbe da escludere un riconoscimento dei benefici legati a controlli o verifiche burocratiche e di routine.
L’unica soluzione sembrerebbe apparire la conoscenza profonda, da parte del magistrato, del “curriculum” criminale del soggetto richiedente, in breve, sapere tutto su chi si ha davanti.

Lo Stato, è in grado di assolvere questo compito? Ha gli strumenti conoscitivi oltre quelli investigativi per ‘seguire’ e controllare i comportamenti del detenuto in permesso?
Il punto nodale dell’intera questione è proprio questo, anche perché non va dimenticato il dato statistico fornito dal Garante nazionale che segnala la presenza nelle carceri di 1.800 ergastolani di cui ben 1271 (cioè il 71%) “ostativi”.

Il nodo dell’ergastolo ostativo potrà sciogliersi solo quando gli organi deputati al controllo saranno in grado di esercitarlo a tutto tondo non limitandosi alla semplice verifica, ad esempio, della regolare firma serale presso il commissariato. Questo è il vero scoglio che come un iceberg si pone di fronte la decisione della Corte Costituzionale.
L’apprensione dovuta all’attesa della pronuncia della Suprema Magistratura, sembra albergare in tutti gli operatori del settore tanto che il pm antimafia Nino Di Matteo, oggi membro del CSM, è estremamente preoccupato già dal solo fatto che l’argomento dell’ergastolo ostativo possa essere tornato in discussione.
Tutto questo, sempre secondo Di Matteo, si configura come un lento e strisciante smantellamento del sistema di contrasto alle mafie ideato e voluto da Giovanni Falcone.
Sulla stessa lunghezza d’onda, si inserisce il contenuto di una intervista rilasciata da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e fondatore del movimento “Agende Rosse”, a “Il Fatto Quotidiano” il 24 marzo scorso dove ricorda come l’abolizione dell’ergastolo ostativo fosse “la più importante richiesta inserita da Riina nel papello ed oggi questa è la più grande resa da parte dello Stato. Una resa incondizionata”.

Ora non rimane che attendere la pronuncia della Corte, sebbene mi appaia concettualmente chiaro e lineare il principio secondo il quale è preferibile che sia il giudice (di sorveglianza) a decidere caso per caso, penso alle possibili se non certe ripercussioni sull’integrità fisica degli operatori di giustizia – l’elenco dei magistrati uccisi dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso è fin troppo lungo – e ciò mi porta quindi a preferire la nascita di una legge che possa regolamentare l’intera materia, restringendo di fatto la discrezionalità del giudice ma sollevandolo dal pericolo di subire pressioni o minacce.
Stefano Ferrarese

Note:

[1] Legge 26/7/1975 n.354 su Gazzetta Ufficiale del 9/8/1975 n.212
[2] Legge 26/7/1975 n.354
[3] Piercamillo Davigo su “Il Fatto Quotidiano” 31/3/2021, pagina 17

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