
In questi giorni di vigilia elettorale, le posizioni pro e contro euro e pro e contro integrazione europea si stanno confrontando vivacemente. Siamo in tempo per salvare l’euro e come farlo?
In Italia, ormai per tutti, anche per quelli che l’hanno votato (il pareggio di bilancio ormai è in costituzione) e sostenuto fino a qualche mese fa, il Fiscal Compact è da abolire.
Ricordiamo che il Fiscal compact – firmato da 25 paesi il 2 marzo 2012 – prevede:
- il vincolo dello 0,5 di deficit “strutturale” rispetto al PIL
- l’obbligo di mantenere al massimo al 3% il rapporto tra deficit e PIL
- per i paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 60%, l’obbligo di ridurre il rapporto di almeno 1/20 all’anno, per raggiungere il rapporto “corretto” del 60 per cento – E in Italia siamo a più del 134 % del PIL.
Alcuni pensano che la zona euro dovrebbe essere ridotta ed i membri deboli espulsi. Altri credono che la Banca Centrale Europea debba essere al centro di ogni soluzione. Altri ancora sperano negli Eurobond. Ed è significativo il consenso per i movimenti che propugnano il ritorno alle valute nazionali. In questo clima gli Euroscettici acquistano sempre maggiore vigore.
Un po’ di chiarezza può venire dall’intervento del Premio Nobel Joseph Stiglitz, in una recente uscita romana, dedicata a rievocare l’opera di Angelo Costa e alla sua attività nell’ambito della Confidustria.
Stiglitz è famoso per messaggi chiari e controcorrente: in passato ha condannato i piani rigidi di austerità, criticato la flessibilità senza protezioni, nel mercato del lavoro. E suggerito il ritorno al passato come ricetta per uscire dalla crisi. Dal ritorno alle monete nazionali, alla ripresa del controllo del potere bancario che ormai domina quello politico. Ha espresso ottimismo sulla sopravvivenza dell’euro, ma anche una profonda preoccupazione per il riproporsi di una “sindrome giapponese” perché si fa il minimo necessario per preservare la valuta comune, e con i costi insostenibili conseguenti si danneggia l’economia europea.
La sindrome giapponese, è caratterizzata per quasi un ventennio da deflazione e mancata crescita: due fenomeni che si consolidano a vicenda, infatti la riduzione dei prezzi dipende dalla crisi della domanda e la domanda peggiora con la deflazione. La Banca Centrale Europea ha già i tassi quasi a 0 e annuncia nuove misure di espansione monetaria; la crescita (o meglio decrescita) italiana è quello che è, per cui la sindrome rischia di divenire anche un po’ italiana mentre, il Giappone ne sta uscendo con l’incremento della domanda pilotata da importanti investimenti pubblici, finanziati con il netto rialzo della tassazione indiretta sui consumi. Una ricetta vigorosamente keynesiana.
Nell’intervento alla LUISS ha stupito l’uditorio con le solite affermazioni originali e coraggiose anche se non particolarmente nuove: l’austerità non ha essenzialmente mai funzionato, la crisi di cui viviamo le conseguenze non è un disastro naturale ma una situazione, una sacca nella quale ci siamo costretti, portando sfiducia nei giovani, chiusura di piccole imprese e anche disincanto verso democrazia e rappresentanza. Ma “la rigidità delle politiche non sono la soluzione. Non permette ai governi di aiutare le imprese a passare dalla vecchia alla nuova economia. Tutt’altro: limita le possibilità di sostegno”. E ancora “credono che la crisi derivi da un atteggiamento troppo spendaccione. Ma l’Irlanda e la Spagna prima della crisi erano in surplus. Non sono state le spese a mandarle a fondo. È la crisi che ha creato il deficit. Non il contrario”.
La proposta “storica” di Stiglitz è una ricetta progressista con quattro componenti:
- debiti in comune
- sistema finanziario comune
- armonizzazione delle imposte
- Banca Centrale Europea, concentrata sull’occupazione, la crescita e la stabilità finanziaria
Ora viene ulteriormente integrata con una proposta concreta: il riequilibrio del continente. Il Nord (la Germania) deve espandere la sua economia più del Sud (l’Italia), evitando di aggravare gli squilibri nella bilancia dei pagamenti verso i paesi extra euro. È questo il primo passo verso una unione fiscale inevitabilmente lenta e graduale, se alla fine arriverà (negli Stati Uniti il percorso è durato più di cento anni e si è realizzata solo con Roosvelt).
Il primo gesto di solidarietà chiesto ai tedeschi non è poi così drammatico: contrastare la congiuntura europea abbassando le tasse ed aumentando i salari ai lavoratori tedeschi.
L’aumento dei consumi sarà conseguente, così pure il miglioramento dell’export italiano e degli altri paesi più deboli e in generale l’espansione dell’economia del Sud Europa. Se invece la sindrome nippo-italiana si confermerà, la conseguenza non potrà non essere che un aumento del costo reale del debito come è invitabile per i debitori già in difficoltà
Aggiungiamo noi, che il Governo Italiano, per non frustrare gli sforzi di tutti, dovrebbe coniugare l’espansione con riforme irrinunciabili e urgentissime: lotta alla corruzione e riforma della Giustizia Civile. Dalla lotta alla corruzione si potranno trovare, per iniziare a risollevare il Paese, le risorse per finanziare investimenti pubblici senza incremento di debito. La riduzione dei tempi di giudizio incoraggeranno gli investitori stranieri. Ulteriori margini di miglioramento avrebbe l’economia italiana con la rimozione degli elementi che contribuiscono a bloccare, ingessare, paralizzare l’economia nazionale: la burocrazia troppo invadente e autoreferenziale, i costi energetici elevati che vanno alleggeriti, attraverso il ricorso a fonti rinnovabili e la pressione fiscale che deve essere ridotta. Per favorire quella che secondo Stiglitz è la nuova rivoluzione industriale e cioè il passaggio dall’industria ai servizi.
Francesco de Majo
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