
Armi e eserciti sempre più presenti nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. La guerra e suoi mezzi continuano a sostituire la diplomazia, la ricerca di soluzioni negoziali e la cooperazione tra le prati. E l'aggravante è che continuiamo a non imparare nulla dell'inutilità delle guerre. Cosa abbiamo ottenuto dagli interventi militari in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia?
Per la prima volta nella sua storia, la Nato interverrà in operazioni inerenti i rifugiati, con l'obbiettivo di contrastare, come spiegato dal segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, «la rete criminale che sfrutta povera gente». Di fatto, come spiegato da molte organizzazioni umanitarie, questo si tradurrà in un ulteriore ostacolo sulla via, già lastricata di ostacoli e sofferenze, dei rifugiati.
Tutto questo perché l'Europa non riesce a trovare una via d'uscita per la crisi dei rifugiati e così mercoledì scorso i ministri della Difesa dei paesi Nato hanno analizzato la richiesta inoltrata dalla Turchia e sostenuta dai tedeschi per un aiuto alle guardie costiere turche che non riescono più a fronteggiare l'immigrazione illegale in Europa. E tutto questo anche perché con la scusa delle migrazioni si possono mandare altri segnali a Mosca circa il suo interventismo nell'area.
Sempre più prossimo un intervento militare in Libia.
Le comunità che si dividono il controllo del paese sono innumerevoli, ma in questo momento buona parte si concentrano intorno alle due fazioni principali: la prima più laica che fa capo al Parlamento con sede nell'ovest a Tobruk e riconosciuto dalla comunità internazionale e la seconda di matice islamista che ruota intorno al Parlamento di Tripoli.
Ad oggi dopo l'accordo ONU firmato il 17 dicembre 2015 in Marocco in Libia non c'è ancora un governo. Questa settimana il premier libico designato, Fayez al-Serraj, ha chiesto altro tempo per la formazione del Governo di Unità Nazionale. Il nodo da sciogliere è quello del Ministro della Difesa che già in passato è stato il pomo della discordia essendo accostato al generale Khalifa Haftar da sempre inviso a più di una provincia. Quindi qualunque proposta circoli che abbia il sentore di eccessiva vicinanza al generale ferma i passi avanti.
Quando e se l'accordo giungerà, l'equiibrio interno resterà molto fragile per la congerie di interessi e per la stessa numerosità dei gruppi tribali che ci sono dietro le due fazioni formalmente in negoziato. Intervenire militarmente in tale groviglio sarebbe pericolosissimo e devastante. Dal 2011 in Libia è guerra civile alla quale ha contribuito l'intervento militare occidentale, determinante per l'uccisione di Gheddafi e l'abbattimento del suo regime.
Adesso la formazione del Governo di Unità Nazionale agli occidentali più che per iniziare a stabilizzare il paese per farlo ripartire serve per avere un interlocutore unico e ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale che possa chiedere aiuto per un altro intervento militare diretto questa volta a distruggere l'Isis. Lo Stato islamico è sempre più presente, in particolare nell'area di Sirte, su una striscia di un paio di centinaio di kilometri, dove si ci sarebbe un primo embrione di Califfato con leader che, dopo le sconfitte subite, si stanno trasferendo dalla Siria e dall'Iraq e con miliziani provenienti per due terzi da altre nazioni africane.
L'aggravante della vicinanza all'Europa e all'Italia in particolare spingono in questa guerra al terrorismo.
A parte il fatto che non è chiara la forza numerica dell'Isis perché come ha spiegato Arturo Varvelli, Responsabile Osservatorio Terrorismo ISPI ed esperto di Libia, «lo Stato Islamico in Libia è certamente una minaccia rilevante ma sinora è piuttosto contenuta. Il numero di combattenti di Isis è spesso esagerato dai media e dai libici che combattono contro gli islamisti. Fonti affidabili e piuttosto aggiornate reputano che ci siano complessivamente tra 2.700 e 3.500 miliziani [il Pentagono ne conta quasi il doppio, ndr] che operano in Libia», qunato poi il fenomeno è stato facilitato dall'esclusione di comunità dalla partecipazione politica, come già avvenuto nella crescita dell'Isis in Iraq. Infatti non è «un caso che Sirte sia la città natale di Muammar Gheddafi e territorio di presenza della tribù Qaddafa. Dalla sua deposizione, la tribù, emarginata e ostracizzata dal governo di Tripoli, è stata anche accusata da altre milizie di connivenza con il passato regime e, talvolta, duramente colpita per questo motivo. Parte dei giovani della tribù e di seconde linee del regime, hanno quindi sposato la causa dell'Isis più per motivazioni politiche che ideologiche. Per questo il ritorno a un processo politico inclusivo (e non vendicativo) appare fondamentale» [1].
Intanto in Libia già da tempo unità dell'esercito statunitense, britannico e francese stanno monitorando e mappando la realtà dello Stato islamico come pure sono in corso ricognizioni aeree alle quali partecipa anche l'Italia. Attività tutte propedeutiche ad un intervento che in più ambienti in Europa e oltreoceano vogliono con sempre maggiore insistenza, sotto richiesta del governo libico e con l'egida dell'ONU, dopo gli attentati di Parigi.
L'Italia è un po' più cauta ma come dicevamo ha iniziato a fare la sua parte. Le pressioni che riceve soprattutto da Washington sono continue e la Libia è stato l'argomento portante dell'incontro di Mattarella con Obama.
Magari l'appoggio, statunitense in particolare, per avere un seggio a rotazione nel biennio 2017/2018 al Consiglio di Sicurezza ci aiuterebbe a fare l'ultimo passo verso il dispiegamento delle forze in Libia?
Senza dimenticare nelle valutazioni che il territorio libico è ricco di risorse e che ci sono interessi giganteschi sul Fondo sovrano libico, il LIA, azionista, per circa 3 miliardi di dollari, di aziende nostrane come Eni, Enel, Fiat-Chrysler, Finmeccanica, Intesa Sanpaolo, Mps, Tim.
Pasquale Esposito
[1] Arturo Varvelli, “L'intervento dell'Italia in Libia è possibile?”, www.tpi.it, 2 febbraio 2016
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