
Quando si affronta il tema della Libia nelle relazioni internazionali spesso gli analisti tengono a margine dei ragionamenti su aspetti politici, economici e miliari le tragedie che da anni si vedono e si raccontano. E non parliamo delle soluzioni. La sofferenza umana non è mai parte del problema. L'ONU ha da poco avvertito della scomparsa di oltre 1.700 rifugiati nel sistema dei lager libici. Senza contare tutti quelli che continuano a rimanerci o coloro che muoiono nel Mediterraneo. E senza contare quanto accade in termini di diritti umani all'interno di Turchia e Egitto che al momento sono i più attivi, anche militarmente, in Libia.
La guerra resta l'opzione primaria in questo paese che è difficile definire Stato. Il Governo di Unione Nazionale (GNA), quello riconosciuto dall'ONU, e con a capo Fayez al-Sarraj si è rifiutato al momento di partecipare al Consiglio delle Lega Araba richiesto dall'Egitto con l'obiettivo tra gli altri di accreditare il ruolo di signore della guerra dell'Est, Khalifa Haftar che gode dell'appoggio anche degli Emirati Arabi Uniti e della Russia.
A sostenere Fayez al-Sarraj, da novembre 2019, c'è la Turchia che ha messo in campo uomini, mezzi, armamenti che hanno consentito l'arresto e l'attuale ripiegamento di Haftar. Un personaggio non amato nemmeno a Washington per i sospetti di contrabbando petrolifero con il Venezuela e per i suoi legami con Abu Dhabi.
Sabato il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi è stato esplicito nel dire, rivolgendosi alle truppe di una base, «siate pronti a condurre qualsiasi missione, qui, all'interno dei nostri confini, o, se necessario, all'esterno», dove quell'esterno è la Libia e dove la linea rossa invalicabile è composta da Jufra e Sirte. Poi i toni sono calati con il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, spiegando che la soluzione militare è l'ultima opzione del suo paese per difendere la sua sicurezza, confermando però «lo sviluppo della milizia turca in Libia è una vera minaccia per la sicurezza nazionale egiziana». Ankara dal canto suo attraverso il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin, si è mostrato comprensivo per «le legittime preoccupazioni di sicurezza dell'Egitto circa il suo confine comune con la Libia” e che “non possiamo trascurare l'importanza della pace in Libia per l'Egitto”, aggiungendo che la Turchia è determinata a restare in Libia “finché il Governo libico vuole che rimaniamo”» [1]. La sicurezza dell'Egitto è anche evitare nell'area elementi del terrorismo che potrebbero entrare nel paese.
A questo punto difficilmente la Turchia uscirà fuori dalla Libia anche perché le sconfitte subite da Haftar lo hanno inviso agli occhi dei russi che a questo punto sarebbero diretti ad un accordo di “spartizione”, con la Cirenaica a Mosca e la Tripolitania a Ankara. La presenza turca, sia militare che civile, soprattutto in Tripolitania guarda non solo alle risorse energetiche (anche le esplorazioni per il gas nel Mediterraneo orientale) ma anche alla strategia di influenze come potenza dell'area che ne ha visto l'azione militare in Siria e in Iraq. Del resto la volontà turca di portare avanti i propri obiettivi, in particolare dopo la battuta d'arresto subita in Siria ad opera dei russi, è così forte da mettere in atto “azioni ostili” anche contro un suo alleato Nato, la Francia quando al largo della Libia, il 10 giugno scorso, una nave militare francese è stato oggetto di manovre “estremamente aggressive” da parte di una nave turca. La Francia che sul fronte libico, insieme a Regno Unito e USA, ha provocato la caduta di Gheddafi e l'esplosione della guerra civile si trova ora a non poter fare granché se non protestare.
Gli americani sembrano non essere più completamente fuori contesto e senza per questo rientrare con gesti pesanti. Adesso devo tener d'occhio la Russia che a fine di maggio dispiegava arerei da combattimento nella base di Al Jufrah, una presenza raddoppiata nell'area dopo la Siria. E così viene confermata «“la narrazione turca secondo cui l'alleato della NATO, la Turchia, sta effettivamente contrastando i nemici degli americani, i russi. Il successo militare turco ha spostato gli americani dalla modesta approvazione dell'azione turca all'approvazione entusiastica “, ha affermato Jalel Harchaoui [specialista dell'Istituto di ricerca olandese Clingendael, ndr]» [2]. Inoltre l'amministrazione americana sta cercando di sfruttare una posizione diplomatica privilegiato dovuta al fatto che Stephanie Williams sta sostituendo, per motivi di salute, Ghassan Salamé il rappresentate ONU che da marzo no ha trovato ancora il sostituto [3].
E l'Italia?
Non abbiamo più un ruolo di primo piano. Come l'Europa. Abbiamo messo la testa sotto la sabbia e dato a Erdogan la possibilità di ricattarci avendogli consegnato il controllo delle rotte dei migranti e con i miliardi dati ad Ankara proprio per i migranti.
Abbiamo spostato l'asse verso l'Egitto, come scrive Alberto Negri, con «le commesse di Fincantieri […], accompagnate da forniture belliche future per 10 miliardi, […]. A Paesi come Egitto e Turchia vendiamo armi, anche in contrasto con nostri interessi geopolitici e in violazione delle leggi italiane, sperando che turchi ed egiziani, per altro nemici tra loro in Libia, non ci trattino troppo male quando decideranno la spartizione delle risorse energetiche nel Mediterraneo, dalle coste libiche a quelle dell'Egeo, rivendicate dalla Turchia con l'accordo fatto firmare da Erdogan a Sarraj» [4].
Giampiero Massolo, presidente di Fincantieri e dell'Ispi, ex segretario generale della Farnesina, sostiene che l'Italia deve muoversi in tutte le direzioni partendo dal fatto che una guerra generalizzata al momento non conviene a nessuno.
Per minimizzare i danni sostiene che bisognerebbe «proseguire e rafforzare una serie di iniziative di diplomazia bilaterale. Verso la Turchia, intanto, per puntellare comunque le nostre posizioni a ovest, dove Eni è il primo produttore e fornitore di energia; così come verso la Russia e l'Egitto, per non perdere terreno nell'est cirenaico, facendo leva sui nostri consolidati rapporti con loro in materia di gestione delle crisi internazionali e di industria energetica (ancora Eni) e non solo. Infine, verso Berlino e Parigi (quest'ultima indebolita dall'essersi troppo sbilanciata su Haftar) e verso Washington, per non lasciare il suo possibile riconvolgimento in Libia solo in mani altrui» [5].
Pasquale Esposito
[1] https://specialelibia.it/2020/06/22/turchia-comprendiamo-preoccupazioni-dellegitto-ma-resteremo-in-libia-finche-vuole-il-governo/, 20 giugno 2020
[2] Jihâd Gillon, “Crise en Libye : les dessous du réengagement américain“, https://www.jeuneafrique.com/1002753/politique/crise-en-libye-les-dessous-du-reengagement-americain/, 18 giugno 2020
[3] Jihâd Gillon,ibidem
[4] Alberto Negri, “L'Italia nella “filiera” di Al Sisi ed Erdogan”, https://ilmanifesto.it/litalia-nella-filiera-di-al-sisi-ed-erdogan/, 19 giugno 2020
[5] Giampiero Massolo, “All'Italia serve una strategia per la Libia”, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/allitalia-serve-una-strategia-la-libia-26565, 17 giugno 2020
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