L’intelligenza artificiale che non riesce a pensare poiché non è in grado di «faire l’idiot»

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Il dibattito sull' è avviato da tempo. Negli Stati Uniti recentemente 160mila professionisti dello spettacolo hanno protestato non solo per i compensi non ritenuti adeguati, ma anche la paura per un futuro dominato dalla tecnologia. Gli attori del cinema e della tv temono che l'intelligenza artificiale possa essere utilizzata per duplicare le loro voci e sembianze. Non è difficile immaginare che saremo condannati o costretti nei prossimi anni a parlare spesso dell'IA (sigla dell'intelligenza artificiale).

Sembriamo schiacciati dall'idea dell'ineluttabilità dello sviluppo e della diffusione di macchine “intelligenti”, quasi fosse una legge di natura. In realtà, lo sviluppo dell'intelligenza artificiale dovrebbe scaturire da scelte consapevoli. Da ponderate scelte umane. Ma dove dovrebbero svilupparsi queste scelte? Se lo chiedono i più avveduti. Chi deve compiere queste scelte? I popoli, la gente comune, l'insieme degli abitanti senza potere del Pianeta possono davvero scegliere dove fermarsi nell'uso dell'intelligenza artificiale? Si tratta di scelte importanti che attengono il nostro rapporto con la realtà e su che cosa sarà il mondo reale se ne faremo esperienza soprattutto tramite dispositivi “intelligenti”. L'opinione dominante li giustifica, sostenendo che miglioreranno la qualità della nostra vita.

Ma oggi è difficile definire cos'è la “qualità della vita”. Si tratta di qualcosa non del tutto definito, una sorta di definizione che può significare tutto e il contrario di tutto, di cui non sappiamo quali siano gli scopi e i valori. Definire la qualità della vita non è una cosa da poco. Vuol dire – ad esempio – avere solo una vita più comoda, confortevole e veloce? Ma a che prezzo?

Ogni giorno è come se fossimo sottoposti ad uno sforzo, talvolta infernale, per inquadrare come i dati intessano – e intasano – la realtà che viviamo. Ma “inquadrare” non è apprendere o venire a conoscenza, come molti si illudono credendo di aver sufficientemente compreso la realtà circostante. Oppure misuriamo la percezione – direbbe Andrea Riccardi – di restare intrappolati nel muro dell'impossibile, quello del nostro presente qui e ora. Molti sono in pieno spaesamento: non quello di chi è sperduto nel buio di un mondo che non vede i profili della realtà, ma al contrario sperduto nella luce, nella troppa luce. Si hanno tante informazioni e si accendono tante luci mediatiche. Si reagisce con rapidità. Scriveva un critico d'arte inglese, John Ruskin: «E' l'eccesso di luce che rende la vita di oggi perfettamente volgare».

Nel libro La scorciatoia. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano (Il Mulino 2023, pp. 216 € 16,99) di Nello Cristianini ci accorgiamo quanto le macchine intelligenti sono entrate nelle nostre vite, «ma non sono come ce le aspettavamo». Fanno molte delle cose che volevamo, «e anche qualcuna in più, ma non possiamo capirle o ragionare con loro, perché il loro comportamento è in realtà guidato da relazioni statistiche ricavate da quantità sovrumane di dati». Eppure possono essere in certi casi più potenti di noi: ci osservano continuamente, e prendono decisioni al nostro posto. E allora come – si chiede Cristianini, professore di Intelligenza artificiale, all'Università di Bath, nel Regno Unito – incorporarle nella nostra società senza rischi ed effetti collaterali? Come poterci fidare di questi nuovi agenti «alieni»? Per “inquadrare” il rapporto tra dati e realtà è necessaria la distinzione tra correlazione e causalità. Correlare informazioni, come le macchine “intelligenti” fanno, non mostra necessariamente la causa esatta riscontrabile nella realtà materiale. Questa impostazione ci consente di cogliere e creare il giusto distacco con la complessità che ci circonda, correggendone la rappresentazione, spesso ingenuamente spaventosa, che se ne ha. Le macchine “intelligenti” – se di intelligenza si vuole parlare – sono altro rispetto all'intelligenza umana perché lavorano per correlazione di dati, percorrendo “scorciatoie” molto utili ma che necessariamente possono tagliare via molto rispetto a quanto c'è nella realtà. Per evitare l'illusione che ogni correlazione sia spiegazione causale esistono tecniche di elaborazione dati, tecniche che possono aiutare gli agenti umani ad acquisire il giusto senso critico. In altri termini, è impossibile credere di sottraendoci al mondo di dati, sapendo che occorre acquisire una visione di insieme che renda l'esperienza digitale più sofisticata. Occorrerà apprendere come interagire con forme di intelligenza non umana, proprie di artefatti digitali che svelano aspetti nuovi dell'intelligenza umana, con la consapevolezza che nessuna correlazione ha, come unico esito, un inesorabile determinismo digitale.

Per , filosofo tedesco di origini sudcoreane, a partire dal suo livello più profondo, il pensiero è un processo decisamente analogico. Prima che esso colga il mondo, è il mondo a toccarlo, a commuoverlo, come sostiene nel suo volume Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi, 2022 pp. 136, € 13,50). L'aspetto emotivo è essenziale per il pensiero umano. La prima immagine di pensiero è la pelle d'oca. Proprio per questo l'intelligenza artificiale non può pensare, perché non le viene la pelle d'oca. Le manca la dimensione affettiva e analogica, quel senso di profonda commozione che dati e informazioni non riescono a portare con sé. Il pensiero scaturisce da un tutto insito nei concetti, nelle idee e nelle informazioni. Prima che il pensiero s'indirizzi a qualcosa, «si trova già nei confini di uno stato d'animo fondamentale. È questa situazione emotiva a caratterizzare il pensiero umano. Lo stato d'animo non è uno stato soggettivo che si riflette sul mondo oggettivo. È il mondo. Il pensiero articola successivamente in concetti il mondo incluso nello stato d'animo fondamentale». È lo stato d'animo fondamentale a dar da pensare per il filosofo tedesco Martin Heidegger: «Ogni pensare essenziale richiede che i suoi pensieri e le sue proposizioni ricevano ogni volta di nuovo l'impronta, come metallo, dallo stato d'animo fondamentale».

Il pathos è l'inizio del pensiero. L'intelligenza artificiale è – spiega Byung-chul Han – «apatica, vale a dire senza pathos, senza passione. Essa calcola. L'intelligenza artificiale non ha alcun accesso a orizzonti che si lasciano più intuire che delineare con nettezza». Questo «presagire» non è però «il primo gradino della scala del sapere».

Big Data mette a disposizione un sapere rudimentale che resta limitato a correlazioni e riconoscimenti di schemi, senza tuttavia consentire la comprensione di alcunché. Il concetto forma invece una totalità che include e comprende ogni suo fattore. Big Data è additivo. Ciò che è additivo non forma una totalità, una conclusione. Gli manca il concetto, quell'appiglio in grado di radunare tante parti diverse in una totalità. L'intelligenza artificiale «non raggiunge mai il livello concettuale del sapere. Non comprende i risultati che calcola. Il calcolo si distingue dal pensiero in quanto non forma concetti e non è in grado di avanzare da una conclusione all'altra. L'intelligenza artificiale impara dal passato, ma il futuro che essa calcola non è un futuro vero e proprio. L'intelligenza artificiale è cieca dinanzi agli eventi. Il pensiero dispone invece di un proprio carattere di evento, in quanto lancia nel mondo qualcosa di completamente Altro. All'intelligenza artificiale manca proprio la negatività della rottura capace di far decollare il Nuovo enfaticamente inteso. Essa si limita a perpetuare l'Uguale. Intelligenza significa scegliere tra (inter-legere): essa compie solo una scelta tra opzioni precostituite, alla fin fine tra uno e zero. Non si spinge oltre il precostituito per arrivare, cosí, all'ignoto». Il pensiero nel senso enfatico del termine crea un nuovo mondo. È diretto al completamente Altro, all'Altrove, spiega Heidegger: «La parola del pensiero è povera di immagini e priva di attrattive […] E tuttavia, il pensiero cambia il mondo. Lo trasforma nella profondità sorgiva, sempre piú oscura, di un enigma; proprio in quanto è piú oscura, questa profondità è promessa di una piú grande chiarezza».

Big Data mette a disposizione un sapere rudimentale che resta limitato a correlazioni e riconoscimenti di schemi, senza tuttavia consentire la comprensione di alcunché. Il concetto forma invece una totalità che include e comprende ogni suo fattore. L'intelligenza macchinica – per Byung-chul Han – «non raggiunge quell'oscura profondità sorgiva ed enigmatica. Le informazioni e i dati non recano alcuna profondità. Il pensiero umano è molto di piú del calcolo e della risoluzione dei problemi. Esso rischiara e illumina il mondo. Crea un mondo completamente altro. Dall'intelligenza macchinica emerge soprattutto il pericolo che il pensiero umano le si allinei diventando a sua volta macchinico». Il pensiero si nutre dell'eros. In Platone, logos ed eros intrattengono una relazione intima. L'eros è precondizione del pensiero. In questo senso, anche Heidegger segue Platone. Sulla strada per l'ignoto, il pensiero viene ispirato dall'eros: «Io lo chiamo Eros, secondo le parole di Parmenide il piú antico tra gli dèi. […] Il colpo d'ala di quel dio mi sfiora ogni volta che compio un passo essenziale nel pensiero e mi avventuro per una strada inesplorata». Il calcolo è privo di eros. I dati e le informazioni non seducono. Secondo Gilles Deleuze, la filosofia si eleva mediante un «faire l'idiot». Non è l'intelligenza, bensí l'idiozia a caratterizzare il pensiero. Ogni filosofo che crea un nuovo pensiero, un nuovo idioma, una nuova lingua è un idiota. Prende congedo da tutto ciò che è stato. Abita un livello d'immanenza del pensiero ancora vergine, non scritto. Facendo l'idiota, il pensiero azzarda il grande salto nell'assolutamente Altro, nell'ignoto. La storia della filosofia è una storia di idiozie, di balzi idioti: «Il vecchio idiota voleva delle evidenze alle quali sarebbe arrivato da solo: nell'attesa, avrebbe dubitato di tutto […] Il nuovo idiota non vuole nessuna evidenza […] vuole l'assurdo: non è più la stessa immagine del pensiero». L'intelligenza artificiale non riesce a pensare poiché non è in grado di «faire l'idiot». È troppo intelligente per essere idiota.

Antonio Salvati

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