Lo sport italiano e le Olimpiadi di Tokyo

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Terminata la XXXII edizione delle Olimpiadi, senza dimenticare che il 25 di agosto si aprirà la XVI di quelli Paralimpici, con una cerimonia imponente ma non sfarzosa, direi austera ed essenziale ad esatta immagine del carattere giapponese, com’è tradizione e logica conseguenza, si avvicina il tempo dei consuntivi, delle riflessioni e dei calcoli, su chi ci ha guadagnato e su chi ci ha perso.

I 19 giorni di gare si sono caratterizzati per essere stati senza dubbio la manifestazione sportiva a Cinque Cerchi più difficile dal secondo dopoguerra ad oggi, avendo scontato un rinvio causa pandemia, una integrale chiusura al pubblico nel tentativo di circoscrivere i contagi, una contestazione popolare iniziata già al momento dell’assegnazione e, dulcis in fundo, le più costose della storia.

Ufficialmente l’ammontare della spesa per organizzare l’evento, comunicato a dicembre 2020, era attestato a 15,4 miliardi di dollari ma già a ridosso dell’inaugurazione qualche studio e analisi dei costi, fissava l’intero ammontare ad una cifra oscillante fra i 23,7 e i 25 miliardi di dollari, una cifra monstre che forse nessuno avrebbe avuto mai il coraggio neanche di collocare fra le ipotesi più pessimistiche.
Sul fronte delle “entrate” si contava, come stima sulla carta, su un giro di affari di circa 10 miliardi di dollari in parte incassati dal CIO per i diritti tv più un altro miliardo dagli sponsor, e in parte dal comitato organizzatore nipponico il quale, però, ha dovuto rinunciare di fatto alla vendita dei biglietti, data l’assenza del pubblico, e ad una quota sostanziosa di miliardi legata alla partecipazione di molti sponsor nazionali [1].
Insomma, ci vorrà un po’ di tempo prima di avere a disposizione le cifre esatte ma già si possono fare delle considerazioni fra le quali spicca quella ormai ricorrente, che qualunque organizzazione di Giochi si dimostra un cattivo affare, con costi a consuntivo di gran lunga più elevati, al netto di pandemie o catastrofi naturali, e benefici molto contenuti rispetto le previsioni iniziali.
Esiste sull’argomento una nutrita letteratura in grado di supportare questo teorema ma senza interpretare diagrammi o proiezioni macroeconomiche, basta fare velocemente riferimento alle Olimpiadi di Atene 2004, ad esempio, che di hanno rappresentato l’ultimo passo compiuto dalla Grecia verso il burrone della non sostenibilità del debito nazionale, con tutto quello che poi ne è derivato.
Per non parlare poi dei Giochi svolti in Canada, a Montreal, nel 1976, dove si assistette ad un approccio diverso nei confronti della manifestazione che comunque non riuscì ad evitare una quasi catastrofe. Il Governo diede il proprio consenso alla manifestazione limitandosi ad impegnare solo una manciata di miliardi di dollari – soldi cioè dei contribuenti – lasciando i restanti costi a carico della Provincia del Québec dove si svolgevano materialmente gli eventi sportivi. I residenti hanno terminato di pagare il debito solo 30 anni dopo, cioè nel 2006!
Chissà quando riusciranno a farlo i contribuenti inglesi che per le loro Olimpiadi del 2012 si sono accollati la significativa cifra di 15 miliardi di dollari.

In coda a questa sequela di numeri impressionanti, ricordo che anche la nostra partecipazione ai Giochi di Tokyo ha avuto dei costi, riconducibili ai premi che il CONI riconoscerà ai nostri atleti, cioè ai 40 medagliati fra oro, argento e bronzo. L’ammontare è di circa 7 milioni di euro, dato che ad ogni metallo conquistato è stato abbinato un valore monetario, vale a dire 180.000 euro per la medaglia d’oro, 90.000 per la medaglia d’argento e 60.000 per la medaglia di bronzo.
Sono premi da corrispondere ovviamente con gioia e sentita partecipazione alle emozionanti gare che ci hanno fatto trepidare, divertire, esaltare e che nessun italiano si sentirebbe disposto a non sottoscrivere.

Però, come sempre, in Italia siamo portati ad amplificare a dismisura tutto ciò che di bello riusciamo a fare e di conseguenza ci viene facile parlare di orgoglio nazionale, di prove superlative, di “Sistema Italia” perfetto anche nelle manifestazioni sportive.
Vorrei essere chiaro; ho visto quasi tutte le gare olimpiche perché amo lo sport, perché è solo la bellezza e l’armonia del gesto sportivo – dal perfetto gancio al viso che ti sposta la mascella al nuoto sincronizzato – che può dare un’emozione estrema al limite della commozione e perché piangere di fronte alla prestazione di un atleta è come inchinarsi davanti alla magnificenza del “Cristo patiens” di Cimabue o “L’Annunciata” di Antonello da Messina. Lo sport è tutto questo per me.

Ma tanto abbagliante splendore non può farci dimenticare che dietro ogni gesto, ogni prestazione, ci sono anni di sacrificio, di rinunce, di privazioni, di sogni infranti, di rigoroso rispetto delle regole, insomma di un coinvolgimento totale della propria persona e molte volte di quelle che ti stanno affianco, per poter dire “ce l’ho fatta”, sono un atleta degno di partecipare alle Olimpiadi.

Ecco, a me interessa conoscere e capire tutto quello che c’è dietro quella frase – “Ce l’ho fatta” – perché almeno per gli atleti italiani, tolte le luci e il clamore alimentato e quasi sollecitato dai media e dai più svariati mezzi di informazione di massa, pronunciare quella frase è l’epilogo di una carriera fatta solo di salite ripide, scoscese, senza l’aiuto di nessuno.
È questo il vero problema dello sport in Italia. La solitudine dell’atleta, di uno sportivo cioè che permette alla nostra nazione di scrivere pagine memorabili negli annali olimpici ma che se provasse a voltarsi si troverebbe irrimediabilmente solo, abbandonato o non assistito proprio da quel Paese o “sistema Paese” al quale ha dedicato la prestazione e la vittoria.
Una parte dei motivi di questo stato di cose, sono stati brillantemente illustrati in un “workshop” organizzato dalla regione Marche e tenuto da Vincenzo Biancalana – ricercatore su “metodi e didattiche delle attività motorie” presso l’università di Urbino – e dall’avvocata Barbara Agostinis, esperta di Diritto dello Sport, di cui riporto i punti salienti: «In Italia, diversamente dalla maggior parte dei paesi europei, l’insegnamento dell’educazione motoria nelle scuole dell’obbligo occupa una posizione marginale rispetto alle altre discipline… La conoscenza giovanile del fenomeno sportivo, poiché acquisita prevalentemente attraverso i mass media, è settoriale e limitata allo sport spettacolo legato al business e ai “grandi campioni” con tutte le conseguenze negative che ne derivano. I valori trasmessi da questo tipo di sport sono quelli della ricerca del risultato ad ogni costo, del successo, della vittoria ottenuta con qualsiasi mezzo, valori estranei alla vera essenza dello sport» [2].

È evidente che questo è solo uno degli aspetti che affliggono il nostro mondo sportivo, perché se è vero che nelle scuole non si pianifica l’insegnamento dell’attività motoria e l’avvicinamento dei ragazzi alle discipline sportive, è pur vero che tutto ciò avviene perché mancano le strutture idonee ad agevolare questo passaggio.
Centri di eccellenza di avviamento alle attività sportive in Italia esistono, e molte sono custodi di tradizioni che hanno sfidato il tempo, ma se tentassimo di fotografare dall’alto la presenza di impianti sul territorio nazionale, noteremmo solo punti circoscritti in alcune regioni, quasi a macchia di leopardo, senza una logica e una razionale individuazione delle reali necessità.

Faccio due soli esempi che credo valgano per tutte queste situazioni. Abbiamo giustamente esultato per la magnifica prestazione da medaglia d’oro del quartetto dell’inseguimento a squadre su pista (composto da Ganna, Consonni, Milan e Lamon) alla stratosferica velocità media di 64,856 km/h che, come afferma qualche addetto ai lavori non è solo record del mondo ma un biglietto di sola andata per l’immortalità. Il problema è che spesso non ci si prende la briga di ricordare che nel Bel Paese esistono solo 4 o 5 velodromi disponibili per questo particolare sport su 1200 km di lunghezza dello Stivale.
C’è quello del “Vigorelli” di Milano, a breve ne entrerà in funzione un altro in provincia di Treviso, poi si annovera un velodromo a pochi chilometri da Torino, quello di Palermo è in fase di ristrutturazione ed infine c’è quello di Padova. È evidente che allenarsi, per chi è già professionista, in questa penuria di impianti è a dir poco proibitivo quindi proviamo a pensare con quanta difficoltà possa un giovane atleta avvicinarsi e frequentare questa particolare disciplina.

L’altro riferimento è alla boxe, sport che ha sempre regalato soddisfazioni all’Italia – non a caso è quarta nel medagliere olimpico generale – e che invece a Tokyo 2020 non è riuscito a far qualificare nessun atleta, cosa che non capitava da ben 101 anni, cioè dall’edizione dei Giochi di Anversa del 1920. Qualcuno sarà in grado di riflettere su questa situazione?
La tradizione e la qualità del nostro pugilato sono stati salvati dalla partecipazione delle ragazze che hanno impedito un vero e proprio flop. Ma anche in questo caso, la storica medaglia di Bronzo strappata con la forza di volontà da Irma Testa, è riuscita a nascondere quel buco nero che affligge, come ho detto prima, gli atleti nostrani e cioè la solitudine.
Solitudine alimentata dal disinteresse delle istituzioni nazionali per quello che riguarda una politica dello sport in generale, solitudine accentuata dall’assenza delle istituzioni locali avare nell’aiutare quelle poche strutture esistenti sul territorio che oltre ad insegnare sport, sono vere e proprie palestre dove si tenta di costruire uomini e donne degni di questo nome.
È proprio il caso di Irma Testa e del suo allenatore, l’83enne Lucio Zurlo, “maestro” a tutto tondo di boxe e di vita nella sua palestra “Boxe Vesuviana” a Torre Annunziata, che hanno costruito il percorso per arrivare alla medaglia creando “un miracolo dentro uno scantinato. La storia più bella di questa Olimpiade” come ha sintetizzato Vittorio Feltri in un suo articolo [3].
La storia del vecchio “maestro” sconosciuta ai più, sebbene da 50 anni sul ring ad insegnare i segreti della “noble art”, sta a dimostrare che forse il vero “Made in Italy” dello sport artigianale è proprio nascosto fra le tante palestre sparse da Nord a Sud del Paese, forse con i muri screpolati dal tempo e dall’incuria, forse con i ring o i tatami vecchi e da rifare nuovi, forse con i campi di calcio senza erba ma tanta pozzolana, sicuramente circondati però dall’indifferenza di molti, troppi, di quelle persone che poi davanti ai bagliori di una medaglia parlano di “inconfondibile stile italiano”, gonfiando il petto e intestandosi meriti altrui.

Riusciremo mai ad invertire la rotta? Saremo mai capaci di svincolarci dalla visione abbagliante della “generazione di fenomeni” – fenomeni tra l’altro naturali e non certo frutto di programmazione – e traslocare in un sistema maturo di sport, basato sulla pratica ricorrente ed assistita? Il Presidente del CONI Malagò è tornato a mettere il dito nella piaga quando in una intervista ha espressamente detto: «dovremmo mettere mano ai problemi strutturali di un paese che non crede nell’attività sportiva scolastica e quindi non ci ha mai investito una lira. Non ci crede non solo in termini infrastrutturali ma anche didattici: non crede nel ruolo dello sport di base, dunque nei suoi insegnanti e nella loro formazione» [4].

Stando così le cose, non è un mistero che i nostri successi a Tokyo siano scaturiti dall’unione di due fattori e cioè da una parte dal lavoro artigianale, faticoso e silente di atleti comunque dotati e dall’altra dalla presenza dei gruppi sportivi militari, quindi da due colonne che potrebbero reggere e completare l’architrave portante del nostro sistema, attualmente mancante, e cioè quello scolastico.
Problemi enormi già nella loro individuazione, figurarsi nella pratica realizzazione. Ma abbiamo un piccolo vantaggio e cioè che non siamo gli Stati Uniti d’America e quindi sappiamo in partenza che non potremmo mai realizzare quel sistema sportivo che è alla base dei loro “college” ed università, ma sarebbe già molto importante puntellare e sorreggere quanto di buono è stato fatto fin qui, affinché quelle 40 medaglie non diventino il tappeto sotto il quale nascondere le inefficienze del nostro sport.

Stefano Ferrarese

[1] Marco Bellinazzo “Tokyo 2020. Sipario sui Giochi da 25 miliardi” – “Sole 24 Ore” 8/8/2021
[2] Workshop Regione Marche “L’educazione allo sport e lo sport come educazione
[3] Vittorio Feltri “Libero” 10/8/2021
[4] Simone Cosimi “L’Italia riuscirà a rilanciare lo sport nelle scuole?”, 9 agosto 2021

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