Lo stupro e altre violenze contro le donne come arma di guerra

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È abbastanza verosimile ritenere che la prima notizia di uno stupro avvenuto nel corso di una guerra, sia rintracciabile nell’ opera “Iliou persis” (“La caduta di Ilio”) scritta presumibilmente da Arctino di Mileto nel VII secolo a.C.. I pochi frammenti conservati ci inducono a ritenere che sia un antico poema epico che raccontava in versi l’intera storia della guerra di Troia – circa 1250 a. C.– ma non abbiamo altre indicazioni per conoscerne la trama e quindi le uniche deduzioni utili circa il suo reale contenuto, le si possono ricavare dal II Libro dell’ “Eneide” di Virgilio – scritta diversi secoli dopo – che racconta la stessa storia ma dal punto di vista dei Troiani.

Il fatto sarebbe avvenuto quando i mitici guerrieri greci nascosti nel cavallo, sarebbero scesi silenziosamente e avrebbero appiccato il fuoco alla città di Troia uccidendo tutti quelli che gli si paravano davanti. Uno fra questi eroi, saldamente ancorato al mito, Aiace, re di Locri e figlio di Oileo, secondo soltanto ad Achille per forza e destrezza, temuto anche dai suoi per l’eccessiva brutalità dimostrata in guerra, si avventò – sempre secondo la tradizione – contro Cassandra rifugiata nel tempio di Pallade. Qui, sull’altare della dea, avvenne la violenza. La leggenda narra sempre che l’accaduto terrorizzò i suoi compagni, ma ci fa anche capire che quella paura nasceva semplicemente perché la violenza era avvenuta in un luogo sacro alla Dea che di conseguenza si sarebbe vendicata contro tutti i greci. Di Cassandra, figlia del re Priamo, null’altro ci viene detto se non che, piangente, si aggrappasse ad una colonna. Evidentemente la blasfemia era ben più grave della violenza carnale. Non c’è comunque molto da attendere, in ordine di tempo, per arrivare ad una prima forma di pianificazione ed uso della violenza sulle donne come fine per il raggiungimento di obiettivi politici. Mi riferisco al fatto comunemente conosciuto da tutti come il “Ratto delle Sabine” perpetrato dal re Romolo. Seguiamo la prosa asciutta ed essenziale, senza eccessi, dello storico Tito Livio che ne spiega le motivazioni.

“Ormai la realtà romana era forte al punto da essere pari in guerra a qualsiasi delle popolazioni confinanti; ma per mancanza di donne la grandezza era destinata a durare l’età di una persona, visto che per loro non c’erano né speranza di prole in patria né unioni matrimoniali con i confinanti” [1].

Si presume che le donne rapite siano state poco più di 30, escludendo quindi l’ipotesi iperbolica di 800 donne come riportato dal qualche storico antico. Sappiamo, forse unica cosa certa, che l’agguato avvenne il quarto mese successivo alla fondazione di Roma, cioè ad agosto, come conferma anche Plutarco [2]. Quindi si può dire che nel periodo dell’Antichità Classica la violenza sulle donne, sia in tempo di guerra che nella quotidianità, si manifesta come il normale prolungamento delle norme che regolano il sistema patriarcale dove, sostanzialmente, il corpo della donna viene trattato a mo’ di oggetto esclusivamente per ribadire la supremazia dell’uomo nei confronti del sesso femminile.

Gli stupri avvenuti nel periodo di guerra sono visti semplicemente o, come diremmo oggi, spiacevoli “effetti collaterali” oppure come un accessorio strumentale, quasi necessario, per placare gli animi dei soldati insoddisfatti magari da un bottino di guerra tante volte misero.

La completa sottomissione della donna è anche un assioma del Cristianesimo come si legge negli scritti lasciati dai suoi massimi esponenti, primo fra tutti san Paolo.

“La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia” [3].

Va detto che dal Medioevo a tutto il Rinascimento, periodo costellato da miriadi di guerre, le violenze in generale e quindi sulle donne, furono mitigate proprio dalla Chiesa cattolica che istituì quello che potremmo chiamare il primo movimento per la pace di massa nella Storia. Lo fece attraverso l’istituzione della “Pax et tregua Dei” nel 1027 nel corso del Concilio di Toulouges, nel quale fu stabilita una sospensione dell’attività bellica in alcuni periodi dell’anno, con la conseguenza che pur di mitigare le terribili sofferenze dei conflitti “nell’undicesimo e dodicesimo secolo molti villaggi sorsero all’ombra della Chiesa, nella zona di immunità dove la violenza era proibita dai regolamenti di pace” [4].

Ma soltanto nella seconda metà dell’800 si cominciano ad intravedere gli sforzi per giungere ad una codificazione dei comportamenti che dovevano assumere i soldati in tempo di guerra. Lo sforzo di codificare un documento che ponesse l’accento sul trattamento umano ed etico da riservare alle popolazioni nelle aree occupate, ci viene dagli Stati Uniti e va sicuramente ascritto al giurista e filosofo tedesco-americano Franz Lieber che nel 1863, in piena Guerra di Secessione, pubblicò il Codice che prese il suo nome strutturandolo intorno al principio che i metodi usati in guerra dovessero essere allineati con gli obiettivi e cioè che i fini dovessero giustificare i mezzi. Il Codice conteneva anche uno dei primi divieti espliciti di uso dello stupro e i paragrafi 44 e 47, specificatamente, riportavano il divieto “di stupro da parte di un soldato americano in un paese ostile contro i suoi abitanti… sotto pena di morte, o ogni altra punizione severa che possa sembrare adeguata alla gravità del reato”, riversando di fatto agli stessi comandi militari il diritto di giustiziare i militari colpevoli [5].

L’Europa dopo la costituzione degli Stati nazionali, accelera la conquista e la sottomissione violenta delle popolazioni autoctone in molte aree del Mondo. Per brevità accennerò soltanto alle vicende che riguardano la nostra “avventura” in Africa e specificatamente nel c.d. Corno d’Africa (Etiopia, Somalia ed Eritrea) dove, come tutte le nazioni dell’Occidente, abbiamo commesso enormi atrocità.
La donna africana è vista dagli italiani sotto due distinti ordini. Il primo è esotico, il che permette di sovrapporre senza distinzione il corpo femminile al territorio conquistato, anch’esso nuovo e inesplorato; il secondo è ovviamente sessuale ma nella sostanza, anche grazie ad una letteratura abbastanza fiorente sull’argomento, le metafore associate alla donna nera sono molto spicce. Si va dal considerarla un animale oppure una prostituta o, nel migliore dei casi, una domestica. Tutto ciò contribuisce a creare un simbolismo mediatico che porta ad identificare il Continente nero con il corpo nudo o seminudo della donna, generando la convinzione che conquistare il territorio significhi avere il possesso anche della donna. Non a caso l’inno dei coloni italiani, sotto il dominio fascista, diventa “Faccetta Nera”. Questa concezione ha un risvolto pratico nell’istituzione del “madamato”, termine dispregiativo allusivo alla madama tenutaria del bordello. La pratica, sorta inizialmente in Eritrea, prevedeva una relazione temporanea more uxorio tra un cittadino italiano, molto spesso un militare, e una donna nativa delle terre colonizzate. Ce lo ricorda Indro Montanelli nella famosa intervista del 1982 rilasciata ad Enzo Biagi, quando parlando della sua relazione disse:

Aveva dodici annia dodici anni quelle lì erano già donne. L’avevo comprata a Saganeiti assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire. Era un animaletto docile, io le misi su un tucul con dei polli. Ogni quindici giorni mi raggiungeva ovunque fossi assieme alle mogli degli altri ascari… arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita” [6].

In linea generale, non esistono comunque dati storici negli archivi che possano riportare il numero più o meno esatto delle violenze contro le donne anche perché in Italia, tra fine Ottocento e primi Novecento, prevalse l’orientamento giuridico che bisognasse adeguarsi agli usi e costumi indigeni e seguire le loro regole. Le conseguenze furono quelle che segnala lo storico Emanuele Ertola quando ricorda che sì esistono sentenze dei tribunali italiani nelle colonie su reati di stupro nei confronti di dodicenni o tredicenni

“con i nostri connazionali poi assolti perché secondo le usanze locali le bambine di quell’età erano già pronte per il matrimonio. E qui sta l’ipocrisia di fondo perché se all’epoca un italiano avesse stuprato una bambina di 12 anni in carcere ci sarebbe andato eccome, ma con la scusa dell’usanza locale si chiudeva un occhio” [7].

Accertato quindi, in estrema sintesi, che lo stupro di guerra  possa essere caratterizzato come un retaggio ineliminabile di ogni conflitto bellico, una specie di ultima risorsa da utilizzare per rinsaldare il rapporto fra soldati e fra soldati e loro comandanti, va notato come sia possibile assistere nel corso della Storia ad una evoluzione e trasformazione che ne ha profondamente segnato e caratterizzato la fenomenologia fino a diventare, in epoca contemporanea, componente essenziale della strategia offensiva in molti conflitti armati diventando, di fatto, “parte intenzionale e consapevole di un più vasto progetto di annientamento del nemico, nelle sue più intime identità, con l’obiettivo di distruggerne ogni aspetto materiale e spirituale” [8].

Il corpo delle donne è passato simultaneamente ad assumere le sembianze sia di un nuovo campo di battaglia che di strumento per la realizzazione di fini politici. La donna stuprata prima e usata poi, sull’altro fronte, per perseguire obiettivi politico-militari.

I primi esempi di stupri utilizzati a fini politici e propagandistici – con la partecipazione per la prima volta del mondo della stampa e dell’informazione – vanno fatti risalire a quelli avvenuti in Belgio e Francia nel 1914 nel corso della Prima Guerra Mondiale.
Nell’agosto del 1914 durante l’invasione del Belgio, le truppe tedesche si macchiarono di numerosi fatti di violenza e stupri nei confronti di donne belghe e nel nord della Francia. Il potenziale propagandistico che questi episodi avrebbero potuto offrire in un’ottica di guerra, non sfuggì agli Stati Maggiori Alleati che orchestrarono una poderosa campagna di stampa contro il nemico tedesco, invasore e stupratore, facendo stampare manifesti con immagini più o meno esplicite o comunque tali da suscitare sdegno e riprovazione, molla necessaria per far crescere lo spirito nazionalista. La forte sollecitazione psicologica alla quale furono sottoposti civili e militari, fu determinante per accelerare un processo di identificazione collettiva nel quale “le donne violentate diventavano espressione dello stupro dell’intera nazione e la violenza veniva vista non tanto un’ineluttabile (e trascurabile) calamità bellica ma una sventura che toccava il prezioso tesoro simbolico dell’onore della nazione” [9].
Il tema dell’onore, pertanto, investiva di riflesso anche quegli uomini in armi che proprio quelle donne e quell’onore avrebbero dovuto difendere e ora, di fronte agli stupri, cresceva in loro l’angoscia prodotta dal senso di fallimento, inadeguatezza e impotenza. Ma quasi in un gioco delle parti al contrario, le donne stesse vittime di abuso, nelle loro deposizioni rese alle commissioni d’inchiesta “lo sottolineavano inconsapevolmente: mio marito era in guerra al momento della violenza oppure gli uomini non sono potuti intervenire” [10]. Inoltre facendo passare la piccola nazione del Belgio come vittima della barbarie tedesca – la nazione nella sua globalità e non le singole donne stuprate – si veicolava senza grande fatica l’idea della guerra come una lotta per il diritto, la libertà e la giustizia dei Popoli.
Non è possibile stabilire delle cifre veritiere sulle violenze contro le donne. Gli storici continuano a nutrire dubbi sulle cifre e questo perché le fonti non si sono dimostrate sempre attendibili e verificabili, in parte sopraffatte o condizionate dagli strumenti propagandistici.

Sul significato delle violenze sessuali avvenute in Belgio e in Francia, esiste anche il punto di vista delle donne stesse, molte volte femministe sia europee che americane. Alcune di loro elaborarono profonde riflessioni che puntavano tutte sul modo di pensare degli uomini, comunque già predisposto alla violenza, attitudine che appunto la guerra andava amplificando. Sulla base di questa impostazione, andava crescendo il convincimento che la violenza sulle donne non si manifestava solamente con lo stupro bensì anche attraverso i meccanismi ricettivi dell’uomo, che considerava il corpo femminile esclusivamente un bene di consumo e/o divertimento, alla stregua di un banale prodotto commerciale.
Sulla spinta di questi movimenti, alla Conferenza di pace di Parigi nel 1919 proprio le rappresentanti femminili di diverse associazioni presentarono una petizione per l’istituzione di una Commissione d’Inchiesta per l’individuazione di quei soggetti che si erano macchiati del reato di stupro. Gli accertamenti e le conclusioni alle quali giunse la Commissione portarono alla definizione dello “stupro come crimine contro l’umanità” che comunque fu però rigettata dai rappresentanti degli Stati Uniti i quali obiettarono che il termine “umanità” era un concetto vago e giuridicamente infondato. Ma la contestazione statunitense a quella decisione, si mosse sostanzialmente partendo dal fatto, più o meno coscientemente, che l’applicabilità di una tecnica di guerra risiedeva nel vantaggio militare che questa poteva procurare, ammettendo quindi l’ammissibilità dello stupro se questo avesse prodotto successi strategici.

Allora seguendo la urticante razionalità di questa idea, potremmo tentare di analizzare il fatto passato alla Storia come lo “Stupro di Nanchino”, ex capitale cinese, avvenuto fra il dicembre del 1937 e il gennaio del 1938 ad opera delle forze di occupazione giapponesi che fecero tra 14 e 20 milioni di vittime cinesi. Nel caso di Nanchino, gli storici sono concordi nel fissare da 250.000 a 350.000 il numero delle persone massacrate e da 20.000 a 80.000 le donne stuprate, ponendo quindi questo atto ancora una volta al centro delle violenze perpetrate. Massacri in parte sollecitati dalla necessità, da parte nipponica, di una pulizia razziale che “bonificasse” il Continente asiatico [11].
Se, come detto in precedenza, parte del mondo occidentale trovava giustificabile l’uso dello stupro in guerra ma “solo” se avesse garantito successi strategici, va anche ribadito che questa impostazione non la si può considerare una nuova “dottrina” alla quale ispirarsi sempre e comunque in una guerra, e non va minimizzato il peso dei suoi effetti quando trova applicazione.

Nella fase finale del secondo conflitto mondiale con l’invasione della Germania, l’Armata Rossa fece un uso, quasi pianificato, dello stupro bellico, il corpo femminile come bottino di guerra. Si trattò di violenze estesissime ma nemmeno qui ci sono cifre su cui gli esperti e gli storici concordino.
La più prudente sui numeri è la storica Catherine Merridale per la quale determinante fu il sentimento di vendetta e di odio dei soldati russi, polacchi, cecoslovacchi per quanto avvenuto nel corso dell’avanzata tedesca nelle loro terre. A questo possiamo sommare anche il senso di rivalsa provato dai soldati dell’Armata Rossa nei confronti di una nazione moderna se confrontata con le loro città e villaggi di provenienza.
L’assenza di disciplina in molti dei reparti sovietici, alcuni dei quali formati da soldati prelevati dalle galere o dai gulag, la scarsa istruzione e il diffuso alcolismo, non sono sufficienti per trovare le ragioni di quegli stupri e su questa linea si muovono diversi storici fra i quali Gustavo Corni il quale non condivide la specificità delle violenze sessuali in Germania in quanto fa osservare che l’Armata Rossa si comportò allo stesso modo anche in altri Paesi. In breve, argomenta lo storico, lo stupro sarebbe una sorta di condotta di guerra tipica proprio delle truppe sovietiche [12].

Al di là delle interpretazioni dei fatti fornite dai diversi storici, anche in questi casi riemerge, come già accaduto nella Prima Guerra Mondiale, lo spettro di una valenza simbolica dietro lo stupro.
Il corpo della donna rappresentava il simbolo della nazione sconfitta e l’atto della violenza andava a connotarsi come espressione di disprezzo per la nazione vinta; una specie di negazione della loro identità di persone. Quindi la violazione delle donne era l’affermazione del proprio potere, della propria forza, non solo in quanto maschi, ma perché vincitori. Pertanto si potrebbe dire che, nel caso della Germania, le donne non furono stuprate in quanto donne ma perché “donne tedesche”.

Ancora una volta, il corpo della donna diventa il secondo campo di battaglia dove impegnarsi a dimostrare, oltre alla propria superiorità, anche, e principalmente, l’incapacità nemica di proteggere la propria famiglia, le proprie donne.
Indubbiamente una pagina raccapricciante della Seconda Guerra Mondiale che comunque si allinea con altre spesso volutamente accantonate come quella degli stupri operati dai soldati americani di stanza in Inghilterra prima dello sbarco in Normandia. Va precisato, anche se segnalo una ovvietà, che a differenza della maggior parte degli stupri di guerra, questi avvennero nei confronti di una popolazione, quella inglese, alleata, non nemica. Ma come ha scritto lo storico americano J. Robert Lilly che ha analizzato i procedimenti giudiziari aperti davanti le corti militari americane “le motivazioni politiche o sociologiche, in genere presenti, in questo caso sono del tutto assenti, prevalendo invece quelle collegate alle pulsioni sessuali e all’alcool”. Secondo i dati raccolti dallo studioso, pare che in Gran Bretagna si siano verificati poco meno di 2.500 stupri[13].

Altre pagine tristi della più spaventosa guerra che il mondo abbia sopportato, hanno avuto come palcoscenico proprio il territorio italiano. Dal luglio del 1943 al maggio del 1945, la Penisola fu percorsa in lungo e in largo da soldati provenienti da ogni angolo del mondo. Queste truppe videro nell’Italia un paese vinto e si comportarono di conseguenza, dando corpo all’incubo delle violenze e degli stupri.

 “Tra il 1943 e il 1945 sulle donne italiane si scatenarono violenze di tutti i tipi e su tutti i fronti: sulla ‘Linea Gotica’, i tedeschi infierirono soprattutto nei dintorni di Marzabotto, quasi a voler reiterare la strage in altre forme; sull’appennino ligure-piemontese, nel 1944, in sei mesi, si registrarono 262 casi di stupro ad opera dei ‘mongoli’, cioè i disertori dell’Asia sovietica arruolati nell’esercito tedesco” [14]

ci ricorda lo storico Giovanni De Luna, ma senza dubbio, nell’esperienza italiana, nulla può eguagliare le vicende delle c.d. “marocchinate”.

Il 13 maggio del 1944 furono le truppe francesi a rompere la linea difensiva della “Gustav” lungo la valle del fiume Liri, sbloccando di fatto il fronte fermo a Cassino ed aprendo agli Alleati la strada per Roma. A fare ciò fu il contingente marocchino, i goumiers, agli ordini del generale Juin che, secondo ancora notizie non confermate dagli storici, come premio per la loro azione ricevettero “carta bianca” per 24 ore. Una ricostruzione, seppure sommaria, di quello che accadde nei giorni e nei mesi successivi ci viene fornita nel testo del Disegno di Legge presentato in Senato il 15 giugno 2021 per l’istituzione della “Giornata Nazionale in memoria delle vittime degli stupri di guerra del 1943-1944” a firma del senatore Gianfranco Rufa.

“Dalla Sicilia alla Toscana, passando per il Lazio, in particolare nel Frusinate e nella provincia di Latina, sono avvenuti episodi di violenza sessuale e violenza fisica di massa effettuati dai soldati marocchini, algerini, tunisini e senegalesi inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia (Corps expèditionnaire français en Italie – CEF). Solo nel Frusinate ci furono oltre 60.000 richieste di danni e in migliaia denunciarono gli atti di violenza cui furono sottoposti uomini, donne e bambini. La vittima più giovane aveva 7 anni, mentre quella più anziana ne aveva 86” [15].

Un altro degli episodi più devastanti e raccapriccianti avviene durante la guerra civile in Rwanda nel 1994 dove lo stupro è strumento quasi esclusivo per porre in atto forme di genocidio. Qui furono massacrate circa 1 milione di persone e centinaia di migliaia di donne furono vittima di stupri [16]. L’atto di violenza carnale seguiva un iter ben preciso, quasi un rituale al quale non si poteva derogare. Le vittime subivano le violenze in maniera ripetitiva da più aggressori prima di essere generalmente uccise. Altro rituale non derogabile, era che la violenza doveva essere eseguita in pubblico per terrorizzare ed umiliare le vittime e dimostrare l’inferiorità del clan di appartenenza. L’orrore continuava quando si poneva il problema della nascita dei bambini frutto degli stupri. Secondo stime presentate da un pool di medici francesi che hanno operato in Rwanda, il 90% delle donne violentate non voleva tenere quei figli. Dalle dinamiche con le quali si sono consumate quelle atrocità, risulta evidente che lo stupro è stato espressione di una chiara volontà di epurazione e, in tal senso, il corpo femminile è stato considerato non più come un naturale bottino di guerra bensì, proprio perché individuato nella sua etnicità, come un corpo da non rispettare, da sporcare, sul quale lasciare un segno indelebile che indicasse la sua “diversità”. Questo avrebbe permesso quindi, cosa che non sfuggì ai violentatori, di usare lo stupro come veicolo efficace per la comunicazione politica.

Per concludere questa sia pur parziale analisi sull’uso della violenza sessuale e non contro le donne è necessario ricordare quanto accadde in Bosnia tra il 1992 e il 1995 dove riappare in maniera eclatante l’intento di porre in atto un genocidio etnico.
Nelle intenzioni degli stupratori dovevano condurre a cancellare un popolo, quello bosniaco-musulmano, attraverso la fecondazione con seme serbo delle donne, umiliando così, allo stesso tempo, quella collettività umana costretta, come vittima, a generare figli del nemico.
Le modalità con le quali le donne vennero violentate – quasi sempre in pubblico, per umiliarle e terrorizzare la popolazione oppure convogliandole in appositi “campi di stupro” – dimostrano, come confermato in sede processuale all’Aja, la pianificazione di una strategia sistematica e massiva del terrore individuando nello stupro lo strumento idoneo ad incidere sulla futura composizione etnica della comunità aggredita, perché i serbi consideravano il nascituro frutto della violenza, membro della propria etnia [17].
Illuminanti in questo senso sono le riflessioni della psicologa Consuelo Corradi.

”In questo senso, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, il corpo della donna è diventato il luogo della guerra. Si può veramente affermare che lo stupro di massa e la pulizia etnica non furono il risultato della guerra, ma il contrario” [18].

Ritengo interessante porre in evidenza il fatto che dietro gli atti di stupro, con le motivazioni che abbiamo visto, potremmo dire si celi anche un significato recondito e aberrante allo stesso tempo, legato, potrebbe apparire strano, al tema della purezza del corpo della donna. Mi affido ancora una volta alle considerazioni della psicologa Corradi per addentrarci in questo solo apparente controsenso: ”La violenza in Bosnia è strettamente legata al tema della purezza del corpo della donna, e questo a sua volta, è un elemento culturale così profondo da comportare conseguenze politiche e non ruoli sociali… In Bosnia, la produzione di una identità pura era la fantasia paranoide dei serbi che diventava realtà degradando i corpi femminili a livello di contenitori… Il corpo umano è il vero bersaglio contro il quale si accanisce la violenza, come se esso fosse fatto di creta che può assumere una varietà di forme. Spesso il corpo della vittima viene brutalmente modellato al fine di rientrare in una forma illusoria di identità politica” [19].

Le donne non hanno, in questa come in tutte le altre guerre combattute, alcuna soggettività bellica tale da influire sui giudizi postumi che saranno espressi su quei conflitti, perché se ogni guerra è concepita come scontro fra due soggetti, l’attacco alle donne è visto, e la Storia lo sta a dimostrare, solo come un conflitto fra un soggetto e un oggetto.

Stefano Ferrarese

 

[1] Maria Teresa Zambianchi – “Tito Livio – Ab Urbe Condita. Passi scelti. Il ratto delle Sabine, Libro I,9”, Principato 2009
[2] Barbara Scardigli – “Plutarco – Teseo e Romolo. Vite parallele. Il ratto delle Sabine- 14.1”, BUR Classici greci e latini – 2003
[3] Carlo Crovetto – “Le lettere di San Paolo – dalla Ia lettera di Paolo a Timoteo – II, 1-15”, Il Seminatore 2012
[4] Georges Duby – “Una storia di vita privata; rivelazioni del mondo medievale”, Harvard University Press 1993, pag.27
[5] Anna Galetti – “La protezione dei bambini soldati: una scommessa per il diritto delle genti” – Ginevra 2000, pag. 8
[6] https.//ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2019/03/11/montanelli-troppe-ombre-per-dedicargli-un-giardino Milano 05.html
[7] Emanuele Ertola – “In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero” – Laterza 2019, pag. 246
[8] Michele Strazza – “Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali” – Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata – CRPO 2010
[9] Alberto Mario Banti – “L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra” – Torino, Einaudi 2005, pag. 357
[10] Donatella Porcedda – “L’arma della persuasione. Parole ed immagini di propaganda nella Grande Guerra” – Gorizia, Edizioni della Laguna, 2001
[11] Tiziano Tussi – “Nanchino 1937-1938. La strage dissotterrata” – Sesto San Giovanni, Meltemi, 2020
[12] Approfondire questo argomento, continua a risultare problematico in quanto gran parte del lavoro degli studiosi sembra ancora servire precisi obiettivi, siano essi di vittimizzazione del popolo tedesco parlando di 2 milioni di donne violentate o di descrivere il fenomeno delle violenze senza ricostruirne il contesto storico, valutando in 100.000 le donne che subirono violenze.
Catherine Merridale – “I soldati di Stalin. Vita e morte nell’Armata Rossa 1939 – 1945” – Mondadori 2007, pag.297; Gustavo Corni – “Il sogno del ‘Grande spazio’- le politiche di occupazione nell’Europa Nazista” – Roma-Bari, Laterza, 2005;
Anthony Beevor – “Berlino 1945. La caduta” – Rizzoli 2003 – BUR Storia e biografie – cap.27
[13] J. Robert Lilly – “Stupri di guerra. Le violenze commesse dai soldati americani in Gran Bretagna, Francia e Germania 1942-1945” – Milano, Mursia, 2004
[14] Giovanni De Luna – “Il caso delle donne italiane stuprate durante la Seconda Guerra mondiale, al centro di nuove ricerche” – CDSC onlus (Centro Documentazione Studi Cassinati) – Bollettino Anno II, nn. 3-4, Sett.- Dic. 2002
[15] www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/365071.pdf
[16] Michela Fusaschi – “Hutu-Tutsi; alle radici del genocidio rwandese” – Torino, Bollati Boringhieri, 2000
[17] Andrea Rossini e Luisa Chiodi – “La guerra ai civili nella guerra di Bosnia-Erzegovina (1992-1995)” – testo in “DEP. Deportate, Esuli, Profughe” n.15, 2011, pag.243
[18] Consuelo Corradi – “Il corpo della donna come luogo della guerra” in “Difesa sociale” n.2, 2007, pp. 9-11
[19] Ivi, pp.13-15

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