Lorenzo Nigro, I fiori di Mozia. Storie di archeologia e di arte

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Quarantacinque ettari di isola profumata, fra templi, ulivi, vitigni, statue e mosaici. Siamo a Mozia (isola San Pantaleo) nella riserva dello Stagnone fra Trapani e Marsala, a ottocento metri dalla costa occidentale della Sicilia e dieci minuti di barca. Una alternativa insolita è quella di raggiungere l’isola a piedi durante la bassa marea, utilizzando l’antica strada punica percorsa dai carri che trasportavano l’uva e il vino prodotto sull’isola. Un luogo magico che avvolge il visitatore in una diversa dimensione spazio-temporale. Si entra “ne lu tempu quannu lu tempu nun era tempu”. È il tempo di Mozia, come racconta il professore Lorenzo Nigro che da venti anni dirige la missione archeologica su questa piccola magica isola che, nel tempo, è diventata un ricco laboratorio di ricerca: mosaici, reperti importanti, utensili di vita quotidiana e – qui arriviamo al titolo – semi di piante e fiori: i fiori di Mozia.
Anche l’avvicinamento all’isola è spettacolare: le saline sulla costa, colonie di uccelli – aironi cinerini e fenicotteri – che utilizzano l’area come punto di sosta nei loro percorsi migratori, le Egadi all’orizzonte.

I Fenici, giunti a Mozia circa nell’Ottocento avanti Cristo, devono aver subito il fascino di questa terra circondata da placide acque. La protessero con mura per difendere il borgo e ne fecero un centro ricco e potente di diecimila anime, sviluppando i commerci, stringendo rapporti con i popoli dell’entroterra a Erice e Segesta e con i greci di Selinunte e Agrigento. Dionigi, tiranno di Siracusa, la distrusse nel 397 avanti Cristo condannandola a un lungo abbandono.
Solo nel 1100 dopo Cristo divenne sede dei monaci basiliani di Palermo che le diedero nome San Pantaleo, fondatore dell’ordine quindi passò ai gesuiti nel 1600 e al nobile inglese Joseph Whitaker che l’acquistò nel 1900 e le diede nuova prosperità.
Whitaker diede inizio a esplorazioni e scavi nell’isola e qui costruì la sua residenza di campagna, quasi un fortino, di fronte al quale nel 1921 furono rinvenuti i resti di una villa rustica, eretta dopo la distruzione di Mozia nel IV secolo avanti Cristo, circondata da un prezioso tappeto musivo con soggetti mitico-simbolici e animalistici. La villa fu chiamata casa dei Mosaici e proprio nel corso di ulteriori scavi avvenuti questa estate 2021, a cento anni dalla prima scoperta, sono venute alla luce altre parti del mosaico decorate con pesci: tonni, delfini, spigole….

In questa terra incantata Lorenzo Nigro, archeologo e pittore, da molti anni a questa parte inforca la sua bicicletta, armato di qualche attrezzo, macchina fotografica, acquerelli e diario e percorre stradine e tratturi, circondato dai profumi che la stagione regala, per visitare i cantieri di scavo e riporta quotidianamente sul diario attività, lavori, ritrovamenti, nomi e numeri. Nel diario aggiunge schizzi e disegni acquerellati che illustrano luoghi e reperti e che ne facilitano il riconoscimento.
I diari sono visibili nella mostra, insieme con i molti acquerelli, disegni affascinanti, carichi di colore e con uno stile peculiare che ricorda la mano di un bambino. Nigro non ritrae un mondo reale, come annota Lauretta Colonnelli curatrice del catalogo, ma un mondo trasfigurato dalle sue emozioni dove la falce di luna è sempre immensa, gialla o viola, grande e placida, il sole scende nel mare avvolto nell’arcobaleno, le stelle compaiono in cielo in pieno giorno, le montagne sono color malva e le nuvole azzurre, mentre la prospettiva si perde felicemente nella moltitudine di colori, nelle suggestive vedute e nella fascinazione degna di una favola.

Lorenzo Nigro Fico al Tempio di Baal
Lorenzo Nigro, Fico al Tempio di Baal

 

A Mozia regnavano tre divinità: Astarte/Afrodite coronata di rose – chiamata anche Iside e Cibele -, Ba’al e Melqart e sono tutte presenti nei disegni di Nigro, con le loro statue protette dai templi e circondate da piante e fiori.
Nel corso degli scavi sono stati spesso rinvenuti semi disseccati affiorati tra la sabbia e le pietre e sono stati affidati agli esperti paleobotanici che hanno rintracciato il loro DNA per scoprire che nel lontano passato a Mozia fiorivano e crescevano il melograno, la vite, l’ulivo, il cappero, il gelso presenti tutt’oggi sull’isola. Ma esistono anche altre presenze, ciascuna con la sua storia e disegno.
Presso il tempio di Astarte c’è un fico d’India, una pianta giunta in Sicilia a metà del Cinquecento e guardata con sospetto dai locali alla vista delle pale ricoperte di acuminate e pericolose spine. I siciliani pensarono che la pianta fosse stata portata dagli arabi per danneggiare i cristiani. L’agronomo francese Adrien de Gasparin prima e lo scrittore Renè Bazin poi gettarono luce sulla pianta e la sua importanza. Il fico d’india era considerata la manna, la provvidenza per i locali i quali con pochi soldi utilizzavano i frutti e “trovavano la maniera di fare la prima colazione, il pranzo e la cena e cantare nell’intervallo” Con i fiori delicati e profumatissimi si facevano le tisane.
La rosa phoenicea che incoronava Astarte, dall’alto fusto rampicante e fiori grandi e profumati è identificata dagli studiosi di flora biblica come la rosa dei testi sacri e pare che i primi rosari venissero fabbricati proprio con il legno di questa pianta.
Sul Tèmenos, muro a blocchi circolare che racchiudeva l’area sacra e i templi delle divinità, c’è il cappero in fiore e in primo piano il verbasco dai fiori gialli che sanno di miele. In un altro disegno compare la profumata menta fiorita che la mitologia greca vuole nata dal sacrificio della ninfa Myntha. Presso il tempio di Ba’al, in un altro disegno fanno capolino i fiori vermigli della aloe arborescens e una pianta di fico. Una pianta antichissima che compare nelle terre dei fenici circa novemila anni fa, si dice importata dalla Siria e assai importante per i suoi frutti saporiti e nutrienti che freschi, disseccati o pressati hanno accompagnato viandanti e pellegrini nei loro viaggi. La Bibbia lo pone tra le sette piante della Terra Promessa insieme con grano, orzo, vite, melograno, ulivo e palma.

Tempio di Melqart acquerello Lorenzo Nigro
Lorenzo Nigro, Tempio di Melqart al Cappiddazzu e asfodeli

Presso il tempio di Melqart, uno dei più importanti edifici sacri di Mozia, una fila di asfodeli in fiore che, secondo i greci, fiorivano nel regno dei morti. Nella ripartizione del mondo degli Inferi, secondo colpe e meriti, i prati di asfodeli erano per coloro che non erano stati buoni ma nemmeno cattivi.
Ai piedi di una Torre inglobata nel circuito murario di Mozia ecco tre palme nane che separano il Tofet – santuario fenicio a cielo aperto – dalla spiaggia sottostante…..e questo luogo non è soltanto riprodotto in un disegno ma riportato nel libro I geni di Mozia scritto da Lorenzo Nigro, archeologo, pittore e anche scrittore.

Continua il percorso tra sentieri, templi, piante e acquerelli per raggiungere la casa della Missione Archeologica e il grande gelso vecchio di cent’anni una volta usato per appendere le reti e le nasse, come racconta Lauretta Colonnelli, e ora è come il nespolo dei Malavoglia, il cuore della casa degli archeologi.
Ancora il Tofet e un rosso melograno dai frutti maturi. C’è un campo dove affiorano le urne e altri reperti sparsi tra i cespugli di lentisco, e dinanzi a un altare eretto all’interno del santuario ecco un gigantesco agave dai fiori ad ombrella che a Mozia chiamano “fiore del primitivo”. Nigro racconta che a Mozia vennero importate grandi quantità di agavi messicane per ricavare la fibra di sisal, per volere di Antonino di Giorgio che sposò Norina Whitaker. La preziosa fibra prendeva il nome dalla città di Sisal nello Yucatan e, sempre secondo Negri, questo progetto con conseguente piantumazione delle piante fini’ per sconvolgere gli strati sottostanti del terreno.
Nel disegno l’acanto di Callimaco, tra favole, verità e il racconto di Vitruvio si dibatte se sia stato l’orafo Callimaco il primo a ornare il capitello corinzio con foglie di acanto…..
Non può mancare il cactus di Mozia, pianta particolare portata sull’isola da Delia Whitaker per eseguire una precisa volontà testamentaria del padre. E’ ancora lì e sotto la pianta sono ammucchiati i pesi da telaio in argilla e seccati al sole, altro tipico reperto di Mozia. Erano parte del corredo di nozze di ogni fanciulla da marito. I Fenici erano esperti nell’arte della tessitura e ne esiste testimonianza nell’area cosiddetta industriale di Mozia.
E infine la vite e le vigne che Nigro disegna accanto alla strada, oggi occupano circa dieci ettari. I Fenici, già conosciuti per il loro vino dolce e speziato, probabilmente iniziarono a coltivare la vite anche a Mozia come emerso dagli scavi. Il vitigno Grillo, dal quale si produce un ottimo vino, risulta essere pianta autoctona da un sempre.
Ultimo atto di questa affascinante mostra da “percorrere” unitamente ai testi del catalogo-diario, è il secondo libro di Lorenzo NigroI Geni di Mozia” necessario complemento alla mostra (Il Vomere 2020). Tra archeologia e storia di Mozia viene inscenato un “giallo” carico di avventura e suspense in cui il protagonista è lo stesso autore. Ma il finale resta da scoprire,

Archeologia, pittura, scrittura: la vera protagonista resta Mozia che Nigro descrive con parole cariche di trasporto e di amore…
tra questo fazzoletto di terra e il nostro cuore si instaura un legame così intimo che è naturale riconoscere in essa il richiamo di forze ancestrali. Mozia è stata ed è. I suoi campi, i suoi piccoli boschi, le sue sponde, le sue sorgenti, i suoi monumenti, i suoi fiori, le sue case, le sue mura, i suoi ulivi, le sue vigne e le sue strade sono abitati da migliaia di anni. Ci hanno vissuto in molti, ci sono venuti in tanti e tutti si sono invaghiti di lei […] non è solo un idillio immaginifico, perché la componente materiale è fortissima: Sole, terra, polvere, sassi, blocchi di pietra ma anche fronde, resine, odori e sapori soprattutto”,

Daniela di Monaco

Spazio Arti Floreali – Roma
Fino al 19 dicembre 2021
I FIORI DI MOZIA
Acquerelli archeologici di Lorenzo Nigro

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