
Anche chi non è di Napoli ha almeno una volta incontrato Posillipo: nel panorama sovraesposto di una vecchia cartolina, nella lettura di un libro di Raffaele La Capria, nei versi di canzoni famose o dalla terrazza di Palazzo Palladini, epicentro delle vicende dei personaggi di Un Posto al Sole.
Posillipo è un'appartenenza forte per i suoi residenti, è un sentimento che risiede nel suo stesso nome (dal greco Pausilypon, che fa cessare il dolore) ed è anche una passeggiata tra le più belle a Napoli, tra il giallo del tufo, l'azzurro di cielo e mare e un susseguirsi di scorci e panorami su cui davvero gli occhi si riposano.

In questo ambiente così uniformemente mediterraneo e solare, è sempre apparso fuori contesto, agli occhi dei passanti, un grosso e scuro edificio, arretrato rispetto alla sede stradale e posto in cima a un'importante scalinata: il Mausoleo Schilizzi.
Da un punto di vista architettonico, il Mausoleo Schilizzi è considerato uno dei più importanti esempi di stile neo-egizio in Italia, e la sua imponente e scura sagoma è dovuta a un'ampia pianta e ai materiali con cui è realizzato: grossi blocchi di piperno per le facciate, granito e pietra per le colonne i pilastri e gli architravi.
La sua costruzione fu lunga e complicata. Voluta e finanziata dal ricco uomo di affari livornese Matteo Schilizzi, che lo voleva dedicare al fratello Marco morto a soli vent'anni (e la cui tomba era stata profanata), l'opera fu iniziata nel 1883 dall'architetto Alfonso Guerra e terminata da suo figlio Camillo solo nel 1921.
L'acquisto “del terreno più bello del mondo”, il desiderio di perpetuare con una grande opera la memoria del fratello e le ingenti disponibilità economiche consentirono a Schilizzi, una volta trasferitosi a Napoli da Livorno, di ingaggiare uno dei migliori architetti dell'epoca e di dare campo libero ai propri “bizzarri capricci”, senza alcun vincolo di spesa.
Ma le ricorrenti crisi depressive cui era soggetto Schilizzi (dopo il lutto del fratello, ossessionato dalla morte e dedito allo studio di esoterismo e alchimia), portarono a un'interruzione dei lavori nel 1889. Così, quando qualche anno dopo, nel 1905, morì senza eredi, un comitato di cittadini provò inutilmente a spingere il Comune di Napoli a rilevare i terreni e continuare la costruzione.

Dobbiamo aspettare la fine della Prima Guerra Mondiale perché un più vasto movimento di opinione, composto anche dal generale Diaz, da D'Annunzio, Di Giacomo e dallo stesso architetto Guerra, portasse il Comune ad acquistare il terreno e a riprendere i lavori con i fondi appositamente stanziati dal Re Vittorio Emanuele in persona.
Nel 1929 il Mausoleo, dedicato ai Caduti per la Patria, venne finalmente inaugurato e, da dopo la seconda guerra mondiale, accoglie anche i caduti di questo conflitto, compresi i civili morti nel corso delle Quattro Giornate di Napoli.
Questo Sacrario è dunque un luogo carico di memoria, perché pur essendo stato concepito per ricordare una singola persona, è poi diventato il posto dove onorare e piangere tante altre vite, giovani e meno giovani, cadute a causa delle guerre.
E l'interno, una chiesa a tre navate straordinariamente luminosa di marmi bianchi e azzurri, pare proprio un inno alla vita, alla rinascita per chi ci crede, in contrasto con l'austerità e severità dell'edificio all'esterno. Un monumento con i fasti tipici dell'eclettismo ispirato all'arte egizia (le porte guardate da due “guerrieri della luce” in bronzo, i fiori di ibisco, simbolo di immortalità, sul cancello e la cupola con la palma e la quercia, simboli rispettivamente della pace e della gloria) ma che al suo interno trasuda il più ancestrale dei sentimenti umani, il compianto per i morti, in questo caso centinaia e centinaia di vite finite tragicamente.
Schilizzi, tra l'altro, era un vero mecenate e a Napoli ha lasciato la sua impronta contribuendo a fondare, insieme alla duchessa Ravaschieri, l'ospedale ortopedico pediatrico a lei intitolato, aiutando i bisognosi durante l'epidemia di colera del 1884 e finanziando il quotidiano “Il Corriere di Napoli”.
Inutile dire che di questo mecenatismo ci sarebbe ancora bisogno, perché l'intero monumento – e gli spazi di verde in cui è inserito – è chiuso da due anni per inagibilità della parte inferiore. Solo in occasione della Festa della Liberazione il 25 aprile e della Festa delle Forze Armate il 4 novembre, i cancelli vengono aperti per consentire alle Autorità civili e militari di deporre la classica corona di alloro.
Chi scrive ci è passata ed entrata per puro caso, anzi grazie alla gentilezza dei giardinieri che stavano approntando il sito alla vigilia della sua breve apertura. In quella scarsa mezz'ora di visita, tante altre persone che si trovavano a passare sono entrate ad ammirare l'opera e a passeggiare tra i viali e sotto i grandi pini, spingendo lo sguardo dall'edificio al panorama, e lamentando di non poterlo fare regolarmente e nel pieno diritto.
Mai come in questo caso di “città negata” si intrecciano la causa culturale e quella individuale, perché non solo c'è la sottrazione ai cittadini di un bene monumentale, ma anche la sottrazione ad altri cittadini della possibilità di andare in raccoglimento sulle tombe dei loro avi. E mentre fa impressione leggere la sequenza dei nomi sulle lapidi, con le date che dicono della breve vita vissuta da quei soldati -marescialli, caporalmaggiori, sottotenenti- un verso emerge da dentro, uno di quei versi che ai Napoletani riecheggia naturalmente: Che mm'he portato a ffà ‘ncoppe Pusilleco, si nun me vuò cchiù bbene?
Tina Pane
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