Marco Lodoli, Il preside

il preside
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Non sempre le rivoluzioni hanno bisogno di piazze incendiate e leggi da calpestare. Talvolta, avvengono senza far rumore, tra quattro pareti, mettendo in fila parole anziché pallottole. Con il suo ultimo romanzo, Il preside, Marco Lodoli ci consegna il ritratto autentico di un uomo solitario, estraneo alla frenesia della modernità, allo stesso tempo padrone e vittima della sua ribellione sfiorata.

La trama sembra avere le premesse concitate di un thriller. Un preside, giunto alle soglie del pensionamento, si barrica dentro la sua scuola, tenendo in ostaggio una professoressa e uno studente, a cui punta il caldo del suo fucile e il farneticare dei suoi tormenti. Fuori, un esercito di curiosi, passanti e giornalisti: spettatori in attesa di un epilogo annunciato. Come sempre accade nei romanzi di Lodoli, però, la trama è solo la cornice di una narrazione che non insegue il resoconto convulso degli eventi, ma costringe il protagonista a un’indagine intima e dolorosa alla scoperta di sé.

Dietro il cancello della scuola, un commissario cerca di addomesticare l’inquietudine del preside, ponderando le frasi giuste, sperando che bastino per scacciare l’ombra di un drammatico finale. Il protagonista, incalzato dalle domande del commissario, inizia a mettere ordine nel proprio passato, tra ricordi confusi e desideri mai sopiti. I pezzi di vita trascorsa riaffiorano lentamente, impossibili da tenere a bada: le memorie della gioventù, condivisa con l’amico Eugenio, quando la felicità li coglieva senza preavviso; l’ambizione di diventare uno scrittore, abbandonata dopo il primo libro, senza l’urgenza di riprovarci; il legame con la compagna di una vita che rapidamente si sgretola e gli scivola via. Passo dopo passo, il gesto che pareva un’inspiegabile follia, si trasforma nel testamento sofferto di un uomo che ha scelto di essere se stesso fino in fondo, accettando il rischio di risultare incompreso.

Divenuto preside grazie a un fortuito incrocio di coincidenze, ha vissuto il suo ruolo come una missione sociale, invitando studenti e professori a spalancare gli occhi per non perdersi la magia del mondo, troppo spesso soffocata dalle sufficienze da conquistare e dai programmi da rispettare. I docenti che lo circondano difendono la scuola come un’istituzione intoccabile, di cui ne riconoscono regole e gerarchie: a loro avviso, la scuola deve formare i ragazzi del domani, educarli, stampargli nella mente norme di condotta, punirli se necessario. Secondo il preside, invece, la scuola è un “tempio sfasciato ma sacro dove avvicinarsi al mistero della vita, giorno dopo giorno, prima che la maturità sgretoli definitivamente le sue colonne e cancelli ogni verità”. La scuola non deve plasmare i giovani, ma modellarne la corteccia, facendo in modo che la sostanza prenda corpo e si alimenti da sola. Deve sostenerli quando appaiono disorientati, ma senza risultare oppressiva. Lasciare spazio alla creatività e incoraggiarla, anziché reprimerla: “meglio teatro che caserma”, sentenzia il preside.

Distratti dalle scadenze che incombono, gli insegnanti si dimenticano della poesia che affolla il mondo, lo nutre, ne colora gli spazi vuoti. Il protagonista spera che la scuola possa divenire luogo di evasione e libertà, trionfo della fantasia, altrimenti intrappolata nella rigidità della didattica, nelle interrogazioni da ultimare, nei voti da appuntare sul registro come sentenze. Schemi freddi e silenziosi, specchio di una società che ha eletto la razionalità come suo valore supremo. Fosse per il preside, invece, nessun alunno andrebbe bocciato, quantomeno “per non aggiungere infelicità al mondo”.

La scuola non dovrebbe trasformarsi in una sterile somma di nozioni da acquisire a comando: piuttosto che aggiungere informazioni, appesantendo respiri e pensieri, dovrebbe insegnare ai ragazzi a spogliarsi dell’inessenziale, a rimuovere il superfluo, come la polvere che offusca le superfici. “Dimentichiamo qualcosa, buttiamo via, disimpariamo, alleggeriamoci”, suggerisce il preside. Disimparare vuol dire fuggire dall’impersonalità, privarsi delle etichette imposte dalla società, rivendicare con orgoglio la propria individualità, anche a costo di risultare bizzarri, fuori moda. Scegliere di essere se stessi, senza esitazioni: puntini sospesi e minuti nello scorrere del tempo e dello spazio, eppure vitali e rigogliosi, anziché corpi anonimi votati all’irrilevanza. “Siamo deboli, scombinati, senza mete, però vogliamo esistere a tutti i costi, vogliamo essere amati, proseguire questa storia insensata e magari lasciare scritto su un sasso il nostro nome”.

Il monito del preside (e quindi di Lodoli) non resta confinato entro le pareti e le logiche scolastiche, ma assume una valenza più profonda. La scuola costituisce un microcosmo, emblema e riassunto della società, di cui ne riflette codici e contraddizioni: il protagonista ha il solo scopo di rendercene consapevoli. Non sappiamo il nome del preside, Lodoli decide di non rivelarcelo. È una scelta coerente, poiché egli rappresenta un antieroe moderno, che incarna un modo romantico di stare al mondo e ne diviene megafono: un mondo governato dall’immaginazione, dove la poesia sconfigge la noia di giorni sempre uguali, dove l’alterità è un valore e non una condanna.

L’azione del preside, perciò, non è una rivoluzione personale, originata dal profondo della sua frustrazione; al contrario, si tramuta in un atto collettivo volto a rifiutare la società che abitiamo: impaziente, chiassosa, sempre in affanno. In ostaggio, col colpo in canna, il preside tiene tutti noi: un atto d’amore che è insieme disagio e speranza.

Lorenzo Di Anselmo

Marco Lodoli
Il preside
Einaudi, 2020
Pagine 104, € 14,00

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