
Teatro difficile da raggiungere in carrozzina l’Asteria. Ma valeva la pena confrontarsi con le insidie del numero verde dell’ATM e le sue informazioni sbagliate, e poi affrontare un percorso ad ostacoli, per vedere Maria Pilar Pérez Aspa in Isabel Green.
Elegante e sontuosa nel suo abito da sera rosso, Isabel Green-Pilar si presenta al pubblico reggendo in mano la statuetta dell’Oscar con cui il suo personaggio è stato premiato.
Il gioco scenico inizia subito. Isabel ringrazia il pubblico sfoggiando uno smagliante sorriso di circostanza. Subito dopo cambia registro. Isabel dà voce a un monologo interiore che mostra al pubblico. Racconta a se stessa, e noi l’ascoltiamo nei suoi dolori, difficoltà e sofferenze intime. Le racconta in una sorta di sdoppiamento in cui la voce interiore non si palesa, nella finzione scenica, al pubblico festante e applaudente della notte degli Oscar. Si tratta di uno stream of consciousness che rimane nel chiuso della coscienza. Ma è impeccabile Pilar a entrare e uscire da questo sdoppiamento che la vede da una parte attrice glitterata, premiata, al vertice del successo, e dall’altra anima irretita in un gioco di paure interiori.
È un crescendo fino al momento in cui l’argine che separa interno ed esterno si spezza. La paura interiore tracima nel reale portando Isabel Green a denunciare i propri limiti, le proprie paure. Il tutto in un’accelerazione espressiva impressionante che mette veramente alla prova le capacità recitative e drammaturgiche di Pilar che non perde una battuta, domina il palco come solo le attrici di razza possono e riescono a fare.
I passaggi dall’interno all’esterno sono sottolineato dall’uso sapiente delle luci studiate da Alessandro Barbieri. È un uso accorto che contribuisce a sottolineare il mondo che sta dietro le apparenze e gli sguardi sociali. È proprio il caso di dirlo è una luce che illumina un mondo interiore in burrasca, e che porterà Isabel Green a un epilogo inatteso.
Ma prima dell’epilogo Isabel/Pilar lancia un appello agli spettatori: smettiamola con questa rincorsa verso il successo, accettiamoci nelle nostre paure e nella nostra verità.
Grande prova quella di Maria Pilar Pérez Aspa che ancora una volta si mostra in grado di dominare un testo che porta in scena passioni, drammi, e idee. In questo è sicuramente coadiuvata dalla scrittura spigliata di Emanuele Aldovrandi e dalla regia di Serena Sinigaglia, che fa della semplicità, della capacità di portare in scena i drammi del nostro tempo, la propria cifra stilistica. In questo aiutata dalla mano sapiente di Maria Spazzi e dalle sue scenografie.

Per fortuna Pilar ha fatto la danza della pioggia al contrario come mi aveva promesso. Per cui sono riuscito ad avventurarmi in carrozzina fino al teatro Asteria, a godermi uno spettacolo pregevole, riuscendo poi a intrattenermi brevemente con l’attrice. Partendo proprio dalla sua danza della pioggia.
Ti senti un po’ sciamana per la tua danza della pioggia al contrario?
Pilar se la ride con il suo sorriso aperto e coinvolgente prima di rispondere.
Ieri parlavo con un amico proprio dello sdoppiamento a cui è chiamato un attore in scena, di quando devi fare una cosa, nel frattempo devi fare il contrario di quella e altre tre cose contemporaneamente, ed essere concentrato su tutte e tre. Questo sdoppiamento di personalità forse gli sciamani lo facevano e in questo spettacolo c’è molto di questo. C’è bisogno di elasticità per avere una memoria emotiva, per passare dall’emotività sincera e profonda del discorso con se stessi a quella della facciata della protagonista che ringrazia per l’Oscar.
È un po’ una ginnastica. È come fare addominali ma con l’anima.
Ti ho apprezzata molto nei passaggi che effettui da uno stato emotivo all’altro, passaggi che a volte sono molto veloci.
C’è stato un bell’allenamento. Devo dire che le prove di questo spettacolo sono state particolarmente belle. Abbiamo fatto una quantità di versioni. Perché naturalmente Emanuele Aldrovandi ha scritto il testo, che poi ha avuto un’evoluzione. Io ho dovuto imparare tutte le versioni. Però questo ha portato anche a questa elasticità.
Emanuele Aldovrandi ha ritagliato il testo su di te?
Serena ha letto il saggio La società della stanchezza del filosofo coreano Byung-Chul Han. Quando l’ha letto ha avuto una folgorazione “Bellissimo, è bellissimo. Voglio fare uno spettacolo”. Ha preso il saggio e l’ha dato ad Emanuele. Emanuele ha avuto l’idea dell’attrice che prende l’Oscar, ne ha parlato a Serena e Serena ha detto “Pilar. Pilar è giustissima per fare questa cosa”. Poi ovviamente l’utilizzo dello spagnolo è stato pensato perché io sono spagnola e potevo portare questa caratteristica.
Tra l’altro con lo spagnolo riesci a dare ancora più anima e corpo al personaggio. Certe urla e certe imprecazioni in spagnolo vengono fuori in modo ancora più autentico.
Abbiam pensato di portare lo spettacolo anche in Spagna. Lì avrei dovuto fare il contrario, recitare in spagnolo e poi fare tutte le invettive in italiano.
Ho trovato molto interessante l’uso delle luci. Fa risaltare il mondo interiore della protagonista.
Le luci sono di Alessandro Barbieri. È stato molto bravo come sempre. Il light designer ha fatto il progetto luci e poi ha lavorato insieme con Serena. Ci hanno lavorato parecchio. Mi ricordo che ho passato ore e ore in piedi nella stessa posizione perché le luci dovevano essere molto circoscritte, precise, per creare una sospensione. Anche per questo durante lo spettacolo mi muovo poco sul palco.
Le luci aiutano a concentrare l’attenzione. Ci sono dei teatri in cui questo riesce meglio. L’Asteria, è un bellissimo teatro e ha un’ottima acustica, però ha le pareti chiare, quindi c’è molto riverbero.
Quanta fatica c’è in questo spettacolo? Parlo di fatica nella memorizzazione, di fatica fisica, e fatica mentale che richiede il passaggio rapido da un’emozione all’altra.
C’è stata molta fatica all’inizio perché avevo il terrore di saltare le battute.
Dopo un po’ di repliche, quando la memoria è diventata una memoria vissuta e si è depositata dentro nel corpo, ho iniziato a divertirmi. Non c’è niente di peggio e di più faticoso per un attore del non avere azioni, non solo quelle fisiche ma anche drammaturgiche.
In questo spettacolo hai queste azioni drammaturgiche. Così lo spettacolo diventa sorta di percorso che è molto bello, divertente, da percorrere. Naturalmente c’è la fatica fisica. Io finisco che sono un carciofo dopo lo spettacolo. Devi tener presente che sono con i tacchi. Quando mi giro ci sono i fari che mi accecano. È faticoso ma è una fatica che si fa volentieri.
Sono stati tosti da memorizzare gli elenchi infiniti che devo recitare velocemente. Una cosa è la narrazione un altro l’elenco. A Emanuele dicevo sempre “Tu non sai quante imprecazioni ti becchi durante la giornata”.

Mi sembra di capire che il messaggio del filosofo Byung-Chul Han e che voi fate vostro sia Smettiamola con l’arrivismo, di voler essere eccezionali, di voler essere primi. Togliamoci la soddisfazione di riscoprire la nostra mediocrità, la nostra normalità.
È questo il messaggio di fondo?
Sì. Oltre a questo c’è anche la riflessione sul concetto di prestazione.
Dall’inizio dell’epoca industriale a oggi c’è stata un’evoluzione per cui non abbiamo più un padrone che ci dice come e quanto lavorare. Siamo diventati i padroni di noi stessi. E siamo diventati molto più schiavisti verso noi stessi di quanto lo fosse il padrone di una fabbrica. C’è una violenza che noi facciamo su noi stessi prolungando all’infinito le ore di lavoro. È un autosfruttamento nel quale siamo molto più carnefici. Noi siamo allo stesso tempo vittime e carnefici in questo. Lo spettacolo è nato prima della Covid quando questa cosa era veramente esasperata. La fermata ha fatto sì che abbiamo tutti riflettuto un po’ su questi ritmi.
Il problema qual è? È che adesso abbiamo ripreso e abbiamo ripreso esattamente allo stesso ritmo di prima.
Se non più di prima per recuperare il tempo perduto.
Ognuno di noi si sfrutta e si sfrutta volontariamente. Di questo parla Isabel Green quando dice “Siamo fottuti”. Byung-Chul Han esprime un concetto che a me piace molto “L’aumento delle prestazioni porta all’infarto dell’anima”.
Ho visto una scenografia essenziale. Questa è una scelta di ATIR?
Come sempre le scelte sono scelte fino a un certo punto. Maria Spazzi lavora molto sull’essenzialità, sul concetto, e con ATIR lavora con un’endemica scarsità di mezzi.
In questi anni ha definito la sua poetica e arriva al nocciolo, all’essenziale. Maria avrebbe voluto fare la stella che vedete in scena con un materiale più bello, per renderla hollywoodiana. Non c’era la possibilità. Quindi è stato utilizzato il materiale che potevamo permetterci. Però il concetto era quello. Nel finale io prendo possesso di quella stella che è una stella frantumata, spaccata, come è Isabel Green.
Che cosa ti è piaciuto di più e che cosa ti è piaciuto di meno in questo spettacolo?
Mi è piaciuta molto la sfida e la fiducia che mi ha dato Serena proponendomi di lavorare su questo sdoppiamento. Di solito lavoro di più su cose di testa. Invece con Isabel Green c’è questo virtuosismo, questa sollecitazione a mettere in campo i miei strumenti attoriali, ma in modo molto veloce. Ho apprezzato molto che Serena mi desse questa fiducia e poi mi sono anche divertita. Mi sono anche spaccata la schiena. Ma mi sono divertita.
La cosa che mi è piaciuta di meno è che ci sono poche repliche. Perché è uno spettacolo che più lo fai più ne diventi padrone. Non lo facevamo da due anni. È da dieci giorni che ci lavoro su, in casa dove al posto dell’Oscar prendo il mattarello. Fai le prove per poi avere due repliche. Mentre questo spettacolo avrebbe tutte le possibilità per poter girare perché non è costoso. Invece non gira, e su questo sono un po’ arrabbiata.
Quindi per poterlo portare in scena tu hai provato per dieci giorni?
Con i monologhi alla fine diventi tu padrona dello spettacolo. Serena era a fare delle prove prima a Livorno, poi a Brescia, in giro per l’Italia. Ci sentivamo al telefono, ci scambiavamo le idee. Ma le prove le facevo da sola a casa. Abbiamo fatto un giorno di prova con i tecnici poi abbiamo debuttato. Con un monologo che va in scena due giorni non puoi permetterti dieci giorni di prova in teatro.
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