
Dopo un avvio a dir poco scoppiettante della XXXV edizione del Bologna Festival, con la terza sinfonia di Mahler eseguita il 15 marzo e la Passione secondo San Giovanni in programma quattro giorni dopo, per la rassegna concertistica più ghiotta del capoluogo emiliano, promossa dall’Associazione Onlus Bologna Festival, è ora la volta di uno degli eventi più attesi della stagione. Ed a buon ragione!
Martha Argerich, una delle maggiori pianiste sulla scena internazionale più o meno da quando nel 1965 vinse il Concorso Chopin, si è esibita il 6 aprile scorso eseguendo il primo concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven, accompagnata dalla Manchester Camerata.
L’avvio della serata è esilarante. Il direttore d’orchestra, l’ungherese Gábor Takács-Nagy (chi meglio di lui per interpretare lo spirito viennese dell’ultimo scorcio del Settecento), entra in scena e presenta il primo pezzo in programma, la sinfonia n. 1 in mi bemolle maggiore di Mozart, “rubando” un violino dell’orchestra e rivolgendosi al pubblico grosso modo con queste parole: “Un bambino a 8 anni è più o meno in grado di produrre un suono del genere” – ed a seguire un paio di note stonate sul violino. “Mozart ha realizzato quello che state per ascoltare. Cinque anni più tardi, sarebbe venuto a Bologna a studiare contrappunto da Padre Martini: spero che il suo spirito sia con noi stasera ed aleggi in questa sala!”
Non sono in grado di dire se Mozart ci fosse veramente; ma di certo s’è sentito. Eccome!

In un gioco di rimbalzi le tra diverse sezioni orchestrali (come per la famigerata “pallina da ping-pong” evocata dagli insegnanti di clarinetto per spiegare l’effetto che con la lingua ribattuta sull’ancia si deve produrre nello staccato del quintetto in La maggiore K. 581), e seppure con una struttura meno elaborata di quanto siamo abituati a sentire nel Mozart maturo (cioè diciassettenne), i tre brevi movimenti della sinfonia (12 minuti di durata in tutto) si susseguono veloci trasmettendo al pubblico tutta la tensione dei violini che accompagnano il canto e la gioia di vivere, il gusto per il gioco e per lo scherzo del giovane Mozart.
Poi, entra in scena Madame Argerich, e la temperatura in sala comincia a crescere. Il fazzoletto gettato sulla cassa armonica del pianoforte, la consueta chioma folta, bianca e un po’ spettinata, ma al tempo stesso l’eleganza di una grande signora della musica e, dopo qualche battuta di introduzione dell’orchestra, arrivano finalmente le prime note del pianoforte.
Alla forza irrefrenabile dell’Allegro con brio, segue un Largo che sembra trasportare l’ascoltatore dalla esaltazione delle sonorità del tempo introduttivo, che ancora risuonano nell’aria, ad un lirismo più intimo e cupo, che si conclude con l’evocazione di un delicato carillon nelle note finali del movimento. L’avvio del Rondò (Allegro scherzando), senza soluzione di continuità rispetto al Largo (neanche il tempo per un colpo di tosse per gli allergici ai pollini, e in sala ce n’erano tanti, incluso il sottoscritto), riporta l’irruenza concitata dell’incipit del concerto, come se si riprendesse un combattimento dopo una breve pausa di riflessione, un momento per ripensare a se stessi, raccogliere le forze e poi gettarsi nuovamente nella foga della battaglia.
Applausi, fiori, Madame Argerich concede un bis al suo pubblico e si congeda da grande quale è. Quando, prima di lasciare la sala, prende per mano la prima violino e si avvicina con lei verso l’uscita trascinando con sé tutta l’orchestra, si capisce che la prima parte del concerto è finita, che non ci saranno più bis nonostante gli applausi insistiti, che la signora Argerich, passata come una splendida cometa ad illuminare per pochi indimenticabili istanti la scena bolognese con il suo intramontabile vigore (quello, si direbbe, di una ventenne, che però di anni ne ha quasi compiuti settantacinque), ha veramente concluso, stavolta, la sua esibizione.

Un breve intervallo ed è la volta della Jupiter, l’ultima sinfonia di Mozart, la numero 41 in do maggiore, composta, come le sinfonie 39 e 40 ed il quintetto per clarinetto prima chiamato in causa, nel 1788, tre anni prima della sua prematura scomparsa.
Dopo l’avvio dell’Allegro vivace, elegante nei suoi ritmi sinuosi, ha inizio l’Andante cantabile, il secondo movimento (quello, per intenderci, che Woody Allen in Manhattan considerava una delle cose per cui vale la pena di vivere). L’andante è minuziosamente cesellato con grazia estrema ed un singolare gusto per la lettura della partitura. Gli sforzati diventano esplosioni di suono e colore, strutture architettoniche tondeggianti che contengono la forza della musica, facendola pervenire alla soglia massima di espressività. Il secondo tema del movimento, qui proposto in una versione piuttosto accelerata, diventa un ritmo incalzante che insegue l’ascoltatore come una sorta di destino ineluttabile che si sovrappone alla soave poeticità dell’incipit. E che dire del Minuetto che riecheggia nel teatro trasportando idealmente, fin dalle sue prime battute, un pubblico ipnotizzato in una sala da ballo di fine Settecento! Tutto si conclude, poi, in un finale Molto allegro in cui l’orchestra si trasforma in una perfetta macchina da guerra, con gli archi che si paiono rincorrersi in una esecuzione forsennata, ma impeccabile.
Poi, anche qui un bis. Un pezzo corale di Mozart orchestrato da Tchaikovskij. E la magia finisce. Solo fino al 19 aprile, però, quando sul palco salirà un altro dei più grandi pianisti viventi, Grigory Sokolov: assolutamente da non perdere!
Gianfranco Raffaeli
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